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Benny Burger

Prosegue la retro(molto retro)spettiva sui ristoranti spariti con BENNY BURGER di viale Trastevere.


C’era un film con Meg Ryan e Tom Hanks in cui lei era proprietaria di una piccola libreria indipendente e lui di una catena di megabookstore. Il pesce grande che mangia il pesce piccolo. Solo che si trattava di una commedia hollywoodiana e tutto finiva bene per la tenera libreria indifesa. Nella realtà invece il colosso McDonald’s mangiò il piccolo Benny Burger di viale Trastevere, il primo fast food della capitale, che aveva aperto molti anni prima che ognuno di noi imparasse a conoscere McNuggets, Big Mac e cheeseburger vari.




Sgombriamo il campo dalle ideologie: a me quelli che adorano i fast food fanno tenerezza tanto quelli che li demonizzano. Qui, ora, non mi interessa stabilire se questo tipo di gastronomia sia o no sano, nutriente, sostenibile. Qui si fa la storia dei ristoranti perduti e, nel caso particolare di oggi, di come a un certo punto, noi adolescenti degli anni Ottanta, ci ritrovammo ad avere a che fare con questo tipo di cibi.

Io, tra l’altro, potevo ritenermi già un esperto, perché un mio compagno di classe delle scuole medie, che aveva fatto una vacanza negli Stati Uniti, era tornato a Roma raccontandoci di queste meravigliose, esotiche, pietanze: gli hamburger. Sia chiaro, noi tutti avevamo già mangiato un hamburger, ma il nostro hamburger era una polpetta schiacciata che nostra madre ci cucinava, prevalentemente ai ferri, con un contorno di insalata. Gli hamburger di cui parlava lui, invece, venivano serviti dentro un panino, con cetrioli, pomodoro, formaggio. E ketchup.




Già. Il ketchup. Era questo che faceva la differenza. Perché bene o male l’idea del sapore che potesse avere un panino con dentro un hamburger e un po’ di formaggio riuscivamo a farcela. Ma il ketchup nessuno di noi lo aveva mai assaggiato. Probabilmente avevamo visto alcune bottigliette con questo misterioso liquido rosso sugli scaffali dei supermercati.

Ma il ministero della spesa era rigidamente in mano alle madri e figuriamoci se una madre italiana di quegli anni avrebbe mai accettato di acquistare un ingrediente sconosciuto che non avrebbe poi saputo come impiegare in cucina. Dunque il ketchup era il vero problema. Come immaginare il sapore del ketchup?

«Sa di pomodoro – raccontava il nostro amico – ma è anche un po’ dolce». Pazzesco. Una cosa da mille e une notte. Come le salamandre che sopravvivono nel fuoco o i draghi volanti di cui parlava Marco Polo al ritorno dalla Cina.

Poi lo scoprimmo. Il nostro amico convinse sua madre a organizzare una scorpacciata di hamburger a casa sua, dopo la scuola. Così mangiai il mio primo hamburger. Con il ketchup (che sapeva effettivamente di pomodoro e – sì – era anche un po’ dolce). E dovetti ammettere che quella combinazione (pane soffice, carne, formaggio squagliato, insalata, pomodoro, cetrioli e cipolle affettate finemente) era effettivamente buona.

Tutti i sapori si valorizzavano a vicenda ed era decisamente un passo avanti, un hamburger 2.0, rispetto alla polpetta ai ferri che mangiavo abitualmente. Insomma, il primo hamburger della mia vita io non lo mangiai negli Stati Uniti, né in un fast food, bensì nella casa italiana di un mio amico italiano, cucinato da una mamma italiana.

Quando aprì il Benny Burger a viale Trastevere (che anno era? metà degli anni Ottanta, immagino, ma non sono riuscito a trovare un riscontro preciso) fu come se una prima cellula di rivoluzionari avesse cominciato a operare nel quieto vivere delle nostre abitudini gastronomiche. Poi ci fu tutto il triste, vuoto fenomeno dei Paninari, di cui a me fortunatamente non importò mai nulla (non indossavo piumini Moncler, non ascoltavo i Duran Duran.

Mi coprivo con giubbetti senza marca e nel mio walkman c’era Peter Gabriel). Però i panini mi piacevano, avevano una morbidezza che ti conquistava, era come se ogni boccone fosse un’unità saporosa autosufficiente.




Benny Burger prosperò nel corso dei primi anni e resistette eroicamente anche dopo l’apertura di un McDonald’s proprio di fronte a lui. Ma poi il pesce grande decise di mangiare il pesce piccolo. E non ci fu partita. Alla fine degli anni Novanta Benny Burger abbassò le serrande per sempre. Vale la pena ricordarlo perché Benny Burger è stato un fast food indipendente, con un solo punto vendita, a differenza di altri italiani (come Burghy, ad esempio, anche lui fagocitato da McDonald’s nel 1996) che erano comunque delle catene.

Negli Stati Uniti mi è capitato di mangiare ottimi hamburger in catene di fast food che purtroppo in Italia non ci sono (Carl’s Jr., per esempio). Chissà perché in Italia c’è solo McDonald’s (e qualche sporadico Burger King). A me sembra che i panini di McDonald’s siano sempre più insipidi, colpa forse delle eccessive concessioni alle mode salutiste.




E questo è quanto. Non posso chiudere, però, senza ricordare il giorno epocale in cui finalmente convinsi mia madre a comprare il ketchup. Dovevo avere tredici o quattordici anni e riuscii a far passare questa mozione di minoranza. Quando mia madre portò in tavola gli hamburger alla piastra io stappai fiero la bottiglietta di ketchup e ne versai un po’, con l’aria attenta di un chimico che compie un esperimento, in un angolo del piatto. «Che cos’è?», chiese mio padre.
 «Ketchup».
 «Sarebbe?».
 «È una cosa americana, una cosa nuova».


Mio padre ne assaggiò un po’.
 «Ah, è salsa di carrube», disse, «se ne mangiava un sacco durante la guerra».
 «Ma quali carrube?! Quale guerra?! È una cosa americana moderna!».
 Mio padre prese la bottiglietta, lesse gli ingredienti. «Guarda», mi disse.
 Andai a leggere là dove puntava il dito. Carrube, c’era scritto.
E questo segnò la fine di qualunque esotismo nel rapporto tra me e la favolosa salsa rossa.

Di federico platania

Scrittore romano ha pubblicato la raccolta di racconti "Buon lavoro" (2006) e i romanzi "Il primo sangue" (2008) e "Bambini esclusi" (2012). Nel 2013 esce per Gallucci il romanzo "Il Dio che fa la mia vendetta".