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Anna Magnani

Ci manca Anna Magnani. Vorremmo occuparcene tutti i giorni di questa mancanza, per renderla più lieve. Lo facciamo oggi con il capitolo finale, che ha tutto il parossismo della forza disperata ma vittoriosa della personalità di questa grande attrice romana, di un nuovo libro su di lei. Il testo che pubblichiamo, grazie alla gentilezza dell’editore Odoya, ha una intensità traspirante in tutto il volume, che si intitola “Anna Magnani. Biografia di una donna” e si deve al giovane critico Matteo Persica (prefazione di Maurizio Liverani).




Roma, nel testo in questi giorni in libreria per l’editore bolognese, ci viene restituita in una forma mediata dalla grandezza popolare della Magnani, dal suo temperamento drammatico. L’apertura è quello della morte nella clinica Mater Dei ai Parioli (con i funerali a Santa Maria Sopra Minerva) ma non si può non partire dai dintorni di Porta Pia (via Alessandria 192) dove era nata (per la precisione sabato 7 marzo 1908, nell’Asilo materno di via Salaria al civico 126). Poi a tre anni dal suo trasferimento a piazza della Consolazione, poi le scuole a Monti. E ancora la Roma popolare dove scelse di vivere pur rimanendo profondamente lontana da manifestazioni popolari e mantenendo un lato quasi aristocratico. La sua casa di oltre vent’anni, a via degli Astalli 19, in Palazzo Altieri, quella “immaginata” di via Montecuccoli che la vide correre a perdifiato in “Roma città aperta” ma, al di là dei luoghi, è il modo in cui interiorizza Roma che conta. I suoi scarti dal reale che l’hanno consegnata alla storia come forse l’attrice più romana di sempre.

In queste pagine che citiamo c’è una sua piccola lezione di vita. Anche questa costosa o costata. L’Anna che sappiamo non ha avuto o fatto sconti alla vita né sul set né nella vicenda personale. Ed è già una ricca letteratura.

Ci piace ricordarla a cavallo tra l’anniversario della sua nascita e il giorno della festa delle donne.

Finale
La vita è bella lo stesso
di Matteo Persica

C’è una domanda ancora irrisolta, nella mente di chi legge e di chi scrive:
chi è Anna Magnani? Gran parte di noi, del pubblico, ha finito col
credere che la donna e il suo personaggio siano tutt’uno; così la vede
soltanto attraverso le descrizioni che ne vengono fatte. «Forse perché non mi so
pettinare, perché sono impulsiva e perché amo i cani» dice lei angosciata da un
ritratto in cui non si riconosce. «Ma questi sono particolari, non sono buone
ragioni per giudicare una donna».

Forse per descriverla si può usare la stessa definizione che lei stessa diede
dell’attore: «Un’attrice, un attore, un’artista è una cosa molto difficile da definire…
sono degli egoisti, degli egocentrici, un po’ esibizionisti, però guai se non ci
fossero gli attori. Danno tanta commozione, comunicano tanta commozione».
Sensibile o insensibile? Disponibile o egoista? Prepotente o umile? «Molti mi
chiedono se mi ritengo una donna buona o cattiva» si fa scura in volto. «Be’,
potrei dire che nella vita non ho mai pensato di essere malvagia. Nella vita basta
poco per commuovermi, per emozionarmi. Tutto mi fa tenerezza, spingendomi a
essere generosa e comprensiva. Quando lavoro però divento un’altra. È più forte
di me. Divento pestifera, cinica e spietata. E ho le mie impuntature».
Se questo non dovesse bastare, c’è ancora un amico, Antonello Trombadori,
che ricorda le serata a casa sua o di conoscenti comuni, dove Anna si esibiva,
accompagnata da una chitarra o semplicemente dallo sguardo dei presenti, cantando
Chiove, un’antica canzone napoletana: «Anna non era un angelo.

Ma la sua bontà e la sua umanità non avevano limite. Perciò, a tutto diritto, si può
dire che con lei è morta una donna che, non soltanto nel linguaggio e nei modi
che la resero celebre e amata, si era venuta impastando con la città di Roma. Era
alla Roma non angelica, impura anzi di tutte le impurità e le miserie della vita,
ma aperta come le braccia del colonnato del Bernini alla più totale tolleranza
e comprensione, che Anna aveva ispirato la sua arte drammatica. Sicché nella
finzione della bontà sapeva trarre il suono di tutte le corde della malizia, e nella
finzione della malizia il suono di tutte quelle della bontà. Occorre andare molto
lontano nelle viscere di Roma per trovare le radici dell’umanità totale di Anna.
L’inizio potrebbe collocarsi nell’aura cupa e nei barlumi di sangue e d’oro dell’autobiografia
celliniana. Il viluppo centrale nella vita stessa e nell’arte di Giuseppe
Gioachino Belli; nella contraddizione che fu tipica di quel grandissimo tra i
poeti italiani, fra aspirazione alla salvezza e predestinazione al nulla. Le fronde si
confondono con la risata (l’autoironia atroce e sbilenca, simile a quella dei mimi
di Plauto) di Ettore Petrolini, spezzata in tronco da “Sor Nonno co’ la farce”,
mentre proprio più fitta e matura andava facendosi nel tempo buio del fascismo.

Le vette delle fronde non hanno l’uguale, poiché è ad Anna stessa che si deve il
loro verde perenne in questa dura stagione (ahi, quanto breve, ma quanto lunga,
anche, se si tien conto dell’oblio che il consumismo trionfante aveva decretato
da qualche tempo al suo valore!) che l’ha vista andarsene via così, senza aver forse
nemmeno il tempo di gettare tutto intiero, sul secolo irriverente, il suo amaro e
filosofico sberleffo. Quante volte, nella sua casa occulta di Palazzo Altieri, non
nelle serate più loquaci e di mondo (un mondo assai ristretto di amici, peraltro),
ma in quelle in cui soli, per anni e anni, parlammo dei casi amari dell’esistenza,
e della lotta dell’uomo per affrancarsi dalla servitù e dal bisogno, e delle nostre
stesse personali angustie, quando giungevamo al quid della possibilità per il
mondo di riscattarsi davvero, Anna armava quel suo mutismo inquieto come di
nube carica di bufera e poi, con un sorriso che strappava le lacrime, diceva: “Ma
tu, ce credi? Davero?”».




Una delle poche certezze che abbiamo è questa: Anna è la sola attrice che
non abita nei quartieri alti, ma nel cuore della Roma antica. Lì, all’angolo, c’è la
classica Madonnella col lumino acceso e i fiori freschi. C’è sempre una festa di
campane e di rondini, ed è qui che si sente veramente a casa: accanto al ghetto,
Campo de’ Fiori, Monte di Pietà, l’Argentina, la solennità della Minerva e soprattutto
accanto ai veri romani, che da generazioni abitano nelle vecchie case
buie. In quelle strade vive il suo pubblico, quello che lei cerca di difendere da un
cinema che ha preso una brutta strada: «Il pubblico mica è scemo: uno per uno li
puoi anche mettere nell’imbarazzo, ma tutti insieme no! Tutti insieme diventano
acutissimi, e se in un film c’è un po’ d’intellettualismo, loro l’annusano subito,
loro si ribellano. Ah, Madonna Santa, ma che sono tutte queste sofisticazioni!
Perché non si raccontano un po’ di storie semplici, spontanee! Perché non si sanno
più fare dei personaggi senza tante complicazioni, ma con un po’ più di terra,
dentro, di sangue, di passione!… Ormai il pubblico si è stufato di queste porcherie.

Trent’anni fa in Italia al cinema si vedevano solo “segretarie private”, “Scipioni
africani”, “cornuti” e “telefoni bianchi”: per portare sullo schermo l’Italia vera
c’è voluta una catastrofe come la Seconda guerra mondiale. Per fortuna oggi può
bastare molto meno. Io di politica non mi occupo, perché penso che un attore
deve mettere la propria arte al servizio di tutti, ma penso che c’è un’aria nuova: e
che quest’aria nuova possa avere molta influenza sul cinema, riportarlo a rispecchiare
la realtà del nostro paese». Lei, come ha ammesso, si rifiuta di fare politica:
«Però quando la politica la fa, sullo schermo, uno come Gian Maria Volonté, il
discorso cambia… Perché lui è davvero straordinario. Se mi piacerebbe fare un
film al suo fianco? Magari me lo offrissero. Sarebbe una delle cose a cui dire di sì,
finalmente, con autentico entusiasmo».
Ed è proprio in quel popolo che Anna vede ancora la possibilità di essere
sinceri, senza false maschere, immediati: «Credo nella gente semplice e fortunatamente
la incontro. In quella capace di comunicare e con la quale un rapporto,
anche casuale, può divenire facile e consolante».

Ma il suo cruccio più grande è
trovare la sua città, Roma, mutata. Differente da quella che aveva vissuto e sperato:
«Non la riconosco più. Solo in certe, rare, sere d’estate, ecco, quando Roma
si spopola, a ferragosto, per esempio, esci per strada e ritrovi Roma com’era una
volta. No, adesso, a me sembra che la gente sia impazzita tutta, veramente».
Non è soltanto la città nella quale è nata e vive a non piacerle più. Lentamente,
il discorso passa all’umanità intera, al mondo che non si sarebbe mai aspettata:
«Mi sembra stia andando verso una specie di caos: troppe cose succedono che mi
fanno soffrire. Lo vorrei meno calcolatore, meno egoista, vorrei vedere in giro
meno opportunisti. L’umanità mi fa molta pena, me compresa. La vita è bella lo
stesso. Svegliarsi al mattino, vedere il sole e gli alberi e scoprire che si respira…
I tempi felici sono tanto brevi per tutti, sono attimi, mezze ore. A sommarli in
tutta la vita non fanno forse nemmeno una settimana. I tempi del dolore sono
più lunghi per tutti. Ma la vita ci dà sempre qualche compenso. Quale? Trovare,
o ritrovare, un amico, per esempio. Un amico vero, intendo. Sì, è possibile,
l’amicizia esiste. Io ne ho avuti alcuni. Egle Monti è stata la più bella e grande
amicizia della mia vita: era una donna piena di sensibilità, di umanità. Sapeva
farmi vedere dove sbagliavo, prendermi per il mio verso».
La voce e lo sguardo di Anna si velano di rimpianto per la scomparsa dell’amica,
suicidatasi il 3 maggio 1963, ma subito si riprende, ricordando gli episodi più
lieti di quest’amicizia profonda, a volte perfino litigiosa. Ed ecco allora che ritrova
di colpo la sua prorompente gaiezza. «Persone così ne esistono ancora, anche se lei
è morta, dandomi un immenso dolore. Tennessee Williams è oggi per me l’unico
più caro. Un uomo superiore, che scrive sempre di incomunicabilità ma con il
quale è possibile una profonda e sincera comunicazione spirituale».

Anna non nutre speranze per la sua esistenza, piuttosto un desiderio: «Vorrei essere serena. Ma
forse mi è impossibile per il mio carattere. C’è sempre qualcosa dall’esterno che
mi colpisce e tutto mi dà malinconia. In pace con me stessa, questo sì, lo sono.
Ma non basta per non soffrire. Talvolta invidio la gente semplice. Quando sono
al mare mi riesce di esserlo anch’io. Allora cammino scalza, guardo gli alberi e mi
sento un’altra. Mi dico che la vita è bella e vale la pena di essere vissuta. E che la
più grande infelicità è quella di coloro che non sanno amare perché non vogliono
soffrire». Secondo lei, i giochi di interesse sono troppi; se fosse in suo potere
cambierebbe la società attuale, rendendola più semplice, com’è realmente: «La
semplicità rende i problemi e le loro soluzioni questioni universali. Il complicare
rende meschino». Ma è certa che l’umanità a quel gioco si ribellerà, non sa ancora
né come né quando, ma che riguadagnerà il posto che gli compete: «Sono tante
ancora le persone intelligenti, vive, vitali, piene di poesia, di bellezza, di umanità.
E sono quelle persone che finiranno per trionfare, io spero». L’isolamento in cui
vive da qualche tempo si è fatto sempre più stretto, una sorte di sdegnosa solitudine,
o almeno così appare ai più. Questa scelta di vita ha origine in un tormento
preciso: «Ci saranno, ci devono essere persone con cui valga la pena, ancora, di
parlare… Ma non ci si incontra… Siamo come pianeti che percorrono orbite
diverse». Lei, ai giochi della vita di società, ai compromessi e all’ipocrisia delle
semplici relazioni “sociali” non riesce proprio ad adattarsi.




«Oggi sono sola, ma non del tutto. Ci sono, grazie a Dio, il muro di una stanza,
il verde di un albero o di un prato, il cielo blu. Posso passare anche mezz’ora
a guardare una formica… e spesso mi domando, conoscendo quello che le succederà
nella vita, se non sarebbe meglio che la prendessi in mano, tra il pollice e
l’indice, e stringessi, stringessi, stringessi. Ma perché poi uccidere la formica? Ho
cercato a lungo una risposta a questa domanda, e alla fine credo di averla trovata.
Non è la formica che volevo uccidere, ma me stessa. La colpevole non era la formica,
ma sono io e tutti quelli che rifiutano la realtà vivendo una vita che non è
la loro. Ci si crede equilibrati, sicuri dei propri pensieri e dei propri gesti. Poveri
pazzi! Un giorno ci si sveglia e ci si rende conto di essere sempre vissuti in una
pelle che non era la nostra. C’è da impazzire, c’è da ammazzare. Ma ammazzare è
proibito, e allora ci si vendica sulla formica. Oggi, se muoio, voglio che si sappia
che per tutta la vita mi sono arrabbiata per questa menzogna, ma non era rabbia,
era amore. Non è forse amore, il volere che il mondo intero viva senza ingannarsi?
Ho detto che ho paura della morte. Non è vero. Quello che mi atterrisce è di
sparire da un momento all’altro, improvvisamente, senza essere riuscita a sapere
chi era veramente la Magnani, o meglio chi era la piccola Anna. Ma io so chi
era. Una piccola bugiarda che viveva nel sogno per non dover affrontare la realtà.

Senza madre, senza padre, mi sono trasformata in formica. Ho recitato la parte
dell’aggressiva, ma non lo ero. Di qui le mie collere. Ho recitato la parte della pavida
quando invece ero un leone. Di qui le mie collere. Ho recitato la parte della
coraggiosa quando invece ero un agnello. Di qui, ancora, le mie collere. Povera
pazza! Se oggi dovessi morire, sappiate che muoio ricca perché ho capito tutto
questo. Sappiate che le mie collere erano solo rivolte contro di me. Se la morte
mi spaventa ancora un po’ è perché vorrei che ciascuno potesse essere se stesso
per poter morire in pace. Quanto a me, sono pronta. Ho lavorato molto per
prepararmi. Ho lottato, ho urlato alla vita, e oggi posso sorridere alla morte. No,
non mi inchinerò all’ultimo momento davanti a un crocifisso. Lo guarderò come
un altro me stesso che è morto solo, perché un giorno su questa terra nessuno
possa più mentire. Lo so, la gente intorno a me sarà triste, ma io non lo voglio.
Voglio che si possa dire: “La Magnani ha fatto quello che ha potuto, e neanche
troppo male”. Voglio che la gente si asciughi le lacrime e pensi di me: “Fino alla
fine si è battuta perché la sua vita avesse un senso”. Quando i miei occhi si chiuderanno,
voglio che la gente sia felice, perché ho sempre vissuto per potere un
giorno accettare una morte semplice e dolce come quella di mia nonna».

Sarà capitato a tutti quelli che hanno avuto la fortuna di varcare la soglia
di casa Magnani di lanciare ancora un ultimo sguardo, prima di andare via, ai
grossi gatti dalle code volpine stesi sui mobili, come i soprammobili ammassati
all’apparenza per caso, ma con un loro perché, insieme ai giganteschi candelieri
d’opale, le pistole antiche, le tartarughe argentee, i ceri, i rosari spagnoleschi; ti
accorgi che su tutto spiccano i suoi ritratti, che le hanno fatto Renato Guttuso,
Renzo Vespignani, Leonor Fini, ma anche un artista ebreo meno noto, Tabet,
che era scappato in seguito alle leggi razziali senza firmare il quadro; e quello di
un operaio che l’ha dipinta in un pannello orizzontale semisdraiata, con una falce
di luna in alto. Anna lo tiene all’ingresso per mostrarlo a chi entra. Spegne la
luce e, per effetto di colori fosforescenti, la luna e gli occhi si illuminano. «Vedi»
dice lei indicando il quadro, «sembro ’na tigre». Si lamenta solo di non avere il
ritratto che le ha fatto Carlo Levi con la cupola di San Pietro sullo sfondo. «È
l’unico che mi fa sentire romana, con quel cupolone e l’aria da mortaccina che
certe volte mi sento addosso. Lui dice che è troppo affezionato al mio ritratto,
ma non è vero: lui è solo un gran tirchiaccio».

In ultimo, girando con lo sguardo nella sua biblioteca noti un libro: Il Dizionario
domestico, ma sei certo che in quelle pagine non ha trovato le parole capaci
di aiutarla a scoprire il segreto della sola gioia che le sarebbe cara: quella che tocca
alle donne semplici, a quelle che lei ha tante volte rappresentate sullo schermo,
cariche di figli, pronte all’urlo e all’abbraccio, liete di passare giornate comuni,
di accalorarsi nei discorsi sui bambini e i mariti. Da due anni ha comprato un
vecchio cascinale abbandonato, con un terreno di tre ettari attorno, sul quale
sorgono alberi di ulivi, vigneti e lunghe file di cipressi. La sua immaginazione
viaggia, come quando era bambina. Ci si vede felice a trascorrere gli anni della
vecchiaia insieme a Luca, forse la nuora e i nipotini. Da due anni a questa parte
quel rustico ha cambiato volto, diventando un’elegante villa padronale. Ma lei
non è nata per vivere tutto questo.




«Ciao amore!» ti saluta il merlo parlante dell’attrice mentre esci dal suo appartamento
ripensando a tutto ciò che ha potuto “dire” in così poco tempo. Lei,
invece, resta a guardare i tetti sotto il cielo della città al tramonto, come su un
giardino pensile di pietra e di stoffa, fra balaustre vellutate d’erba e maquettes
verdi come prati con il taglio di luce che cade a quest’ora dipingendo la casa di
verde e d’oro. «Che fatica è vivere» dice con un sorriso, guardando fuori dalla
finestra. Mentre un gruppetto di ragazzi gioca ancora a “sartalaquaja” e, poco più
in là, delle bambine si divertono al gioco della “campana”. Mentre Roma, solo
per un istante, riacquista il suo antico silenzio per far piacere ad Anna Magnani,
le cui gesta e parole resteranno nella nostra memoria.