6, rue des Favorites, Parigi è uno degli indirizzi noti del grande Samuel Beckett. Federico Platania nel suo nuovo romanzo “La distanza del cielo. Un atlante beckettiano” (Fernandel, 2021) racconta questo e altri luoghi dell’irlandese Premio Nobel.
Federico Platania (Roma, 1971) è l’ideatore e il curatore del sito samuelbeckett.it, dedicato allo scrittore irlandese, divenuto negli anni punto di riferimento per gli appassionati di Beckett in Italia. Ma è principalmente uno scrittore, con una lateralità ed un’efficacia narrative e tematiche riconosciute nelle diverse prove letterarie, quasi tutte per i tipi Fernandel. Qui è in un corpo a corpo con il suo autore di riferimento, restituito in una genesi dell’amore romanzesca e scarnificata che passa per un personaggio “alter ego” e vari giochi di specchio. Una rifrazione, quella di “La distanza del cielo. Un atlante beckettiano” (Fernandel, 2021), che ci spinge a inabissarci nella storia personale del grande autore irlandese (anglofono e francofono) con continue e ripetute apnee da cui riemergiamo e in cui ci rimmergiamo attratti da piccoli bagliori. Quelli di chi scrive e quelli di chi legge. In un sistema di nodi che avvince e non molla. Vi anticipiamo alcune pagine. (r.c.)
Capitolo 4
6, rue des Favorites – 15ème arrondissement, Paris A quiet and meagre life
1.
Il bambino piangeva e Sam non riusciva a scrivere. Non era suo figlio. Samuel Beckett non ha avuto figli. Era il bambino dei vicini al numero 6 di rue des Favorites, a Parigi. L’appartamento che Beckett condivideva con Suzanne da prima della guerra. Era proprio Suzanne che doveva andare a chiedere ai vicini se non fosse possibile calmare un po’ il bambino, allontanarlo dalla parete, garantire in qualche modo più silenzio. Era Suzanne che faceva tutto.
2.
Anch’io non riuscivo a scrivere e c’era un bambino che piangeva. Ma era mia figlia.
Dopo la morte di Barbara i suoi genitori si erano lentamente allontanati. Avevamo avuto così poco tempo per conoscerci. Non c’era rancore, ma la freddezza l’avevo sempre sentita. Alla fine per loro ero soprattutto l’uomo che aveva messo incinta la loro figlia. E quindi, in un certo senso, indirettamente responsabile della sua morte. Forse esagero, ma è un dato di fatto che dopo i primi aiuti economici, che pure c’erano stati, e scatole e sca- toloni pieni di accessori per neonati – sterilizzatori di biberon, giostrine da culla, la carrozzina, i cuscini anti-soffoco, le lucette e i sonagli – il padre e la madre di Barbara avevano discretamen- te accompagnato me e Giulia fuori dalle loro vite. L’unica che continuava a farsi viva ogni tanto era Anna, la sorella di Barbara. Ma se non ci fossero stati i miei in quel periodo, davvero non so cosa avrei potuto fare.
L’arrivo di Giulia, in quel modo così burrascoso, fu per mio padre il pretesto per chiudere lo studio di architettura qualche anno prima di quanto avesse preventivato. Venne fatto qualche piccolo lavoro in casa, uno dei due bagni venne ingrandito, la mia stanza diventò in pratica la stanza mia e di Giulia. Mia madre continuava a lavorare come traduttrice a casa, come aveva sempre fatto, anche se in pratica faceva la nonna baby-sitter a tempo pieno.
Io cominciai a bere un po’ più del solito. All’epoca neanche me ne rendevo conto. Avevo quell’età in cui è normale bere tanto, l’onda lunga della tardoadolescenza, e sicuramente reggevo l’alcol meglio di quanto non riesca a fare ora.
Ripensandoci oggi, però, mi rendo conto che i miei riflessi erano ben lontani da quelli che ci si aspetterebbe da un padre che deve prendere al volo la figlia mentre sta per ruzzolare giù dal letto o tenerla bene in equilibrio sulla superficie dell’acqua al momento del bagnetto serale. Ancora oggi ho questa immagine di Giulia in braccio a mia madre che guarda i cartoni animati e di me che guardo loro due con il cuore gonfio e la testa perduta nell’alcol.
3.
Della casa di Samuel Beckett in rue des Favorites non esistono foto degli interni. Almeno io non sono mai riuscito a trovarle. So, per quello che ho letto, che era una casa modesta, forse niente più che un piccolo studio adibito a appartamento. Eppure so che in quelle stanze veleggiava un’energia invincibile, quella che c’è sempre nella casa dove una coppia inizia la propria avventura.
Se c’è stato un momento in cui Beckett ha conosciuto la povertà è stato proprio negli anni in cui ha abitato a rue des Favorites, subito dopo la fine della seconda guerra mondiale. La rendita mensile che gli aveva lasciato suo padre valeva via via meno, sempre più imbarazzante chiedere soldi alla madre rimasta in Irlanda. Suzanne cercava di contribuire con qualche lavoro da sarta. Mangiare carne era una rarità da tempo, ma stava cominciando a diventare un problema anche trovare i soldi per le verdure.
Eppure quelli furono anni di sogno e combattimento per Beckett. Tra il 1948 e il 1960 – anno in cui, capovolte le sorti economiche, Samuel e Suzanne potranno finalmente abbandonare i modesti locali di rue des Favorites – Beckett scriverà, proprio in quella casa inospitale, i tre romanzi chiave della sua produzione, Molloy, Malone muore e L’innominabile, gli incredibili Testi per nulla e Aspettando Godot. Lui, Samuel Beckett, il cantore del fallimento, il poeta della resa, nella vita reale reagiva così alle difficoltà. Senza un soldo, senza speranze, senza alcuna prospettiva di pubblicazione, prendeva carta e penna e scriveva.
4.
Io invece stavo male e basta. E non scrivevo. Ancora non ce la facevo. Forse perché non avevo quel fuoco dentro. Forse perché – a differenza di Beckett che poteva contare su Suzanne, che non dubitò mai del talento del suo compagno di vita – non avevo accanto a me una donna che ci credesse al posto mio. Forse perché non avevo la mia rue des Favorites in cui abitare.
Quando scoprimmo che Barbara era incinta, lei e io cominciammo a cercare un appartamento dove vivere. Nessuno di noi due lavorava, ma eravamo entrambi convinti che non potevamo crescere nostra figlia nella casa dei nonni. Coi soldi in qualche modo avremmo fatto. Non ci sembrava neanche un problema all’epoca, tanto incredibile era quello che stava accadendo nelle nostre vite.
Trovammo un bilocale a Garbatella, l’unico che fosse oltre la soglia minima di decenza che avevamo stabilito, e al tempo stesso con un affitto sufficientemente basso da poterlo chiedere ai nostri genitori senza vergognarci troppo. L’appartamento sarebbe stato libero non prima di sei mesi, il che andava benissimo visto che era proprio l’intervallo di tempo che mancava al parto.
La prima volta che Barbara e io visitammo l’appartamento ricordo che attirò la mia attenzione un particolare. Sulle piastrelle della cucina c’era un adesivo mezzo staccato. Una di quelle decalcomanie – credo si chiamino così – di frutta e verdura, quelle decorazioni che, non ho mai capito perché, alcuni attaccano alle pareti. E quando vidi quel grappolo d’uva mezzo graffiato via dalla piastrella sopra il lavandino, con i grumi grigi dell’adesivo che sopravvivevano lì dove una volta c’era il resto del disegno, ciò che pensai fu: quella sarà la prima cosa che toglierò quando prenderemo ufficialmente possesso di questa casa.
Barbara sarà di là, in una delle due minuscole stanze di questo piccolo misero appartamento, per allattare nostra figlia, io verrò qui e con una spugnetta gratterò via questo brutto grappolo d’uva. Staccherò le parti colorate, poi sfregherò forte la piastrella fino a quando anche l’ultima particella di adesivo sarà venuta via e solo in quel momento potrò chiamare mia moglie e dire: benvenuta a casa, amore mio.
5.
In una lettera al suo amico Tom McGreevy, parlando degli anni vissuti nell’appartamento di rue des Favorites, Beckett disse che lui e Suzanne conducevano «una vita magra e tranquilla». Lo diceva con una sorta di pacificata rassegnazione. E sebbene a parole suoni più accettabile che nei fatti, non escludo che una vita magra e tranquilla possa davvero essere desiderabile. Sicuramente io l’avrei desiderata per lunghi anni, quando la mia vita, più o meno magra, cessò definitivamente di essere tranquilla.
6.
Tra le interminabili cose da fare nei giorni immediatamente suc- cessivi alla morte di Barbara, dovetti andare a disdire il contratto di affitto dell’appartamento a Garbatella. Sono passati trent’anni ormai e inevitabilmente il ricordo si fa debole, ma davvero non ho una memoria chiara della giornata in cui tornai in quella casa, con la mia vita stravolta, e dissi al proprietario che non se ne sarebbe fatto più nulla.
Ricordo però che l’occhio mi cadde di nuovo sul maledetto adesivo del grappolo d’uva e pensai che non ci sarebbe stato mai quel momento catartico in cui finalmente l’avrei cancellato per sempre dalla parete. Sono passati trent’anni, appunto, eppure ancora oggi mi lascio sorprendere da questa visione maligna. Io so che l’adesivo è ancora lì.
Barbara è morta, Giulia è scomparsa e l’adesivo è ancora lì. Quella casa di Garbatella, davanti alla quale ho fatto in modo di non dover passare mai più, avrà cambiato in trent’anni non so quanti proprietari. Sarà stata ristrutturata, imbiancata chissà quante volte. Ma io so che l’adesivo resiste ancora. L’insopportabile resistenza di ciò che ti avvelena la vita.
Dopo aver parlato col proprietario ed essermi chiuso alle spalle per sempre il cancello di quel palazzo, me ne andai in giro un bel po’. Non ricordo dove. Forse a bere qualcosa o semplicemente a camminare per il quartiere cercando di far respirare un po’ la testa. Tornai a casa tardi. Mia madre, come sempre in quei giorni, mi fece il bollettino della giornata.
Quanto latte preso, quanti pannolini cambiati. Entrai in stanza e guardai Giulia che dormiva. Ogni volta che la vedevo mi salivano le lacrime agli occhi e ormai sapevo che era inutile chiedersi se fossero di gioia o di dolore. Giulia si sarebbe svegliata al massimo entro un paio d’ore. Dissi a mia madre di andare a letto. Ci avrei pensato io a scaldarle il latte e a prendermi cura di lei. Tanto, di sonno in quel periodo della mia vita non ne avevo davvero mai.