Lorenza Stroppa è editor e scrittrice. Appassionata di mare e di viaggi scrive ed edita libri che hanno molto a che fare con lo spostamento. L’abbiamo intervistata.
Siamo partiti dall’ultimo libro, uscito per Bottega Errante, “Cosa mi dice il mare” che mette a fattore la grande esperienza di viaggio per mare che per la Stroppa è diventata nel tempo sempre più portatrice di affabulazione, sentimenti e necessità all’impianto dei libri e al loro senso. L’ultimo romanzo, come ha scritto Michela Marzano, “racconta la forza dell’amore e del perdono, la necessità, a tratti, di lasciarsi andare, ma anche di riprendersi in mano e ritrovarsi” e allarga la visione “adriatica” al mondo atlantico. Le storie di Corinne e del figlio adolescente Roux s’incontrano, infatti, con le vicende dell’oceano: dallo spiaggiamento di una balena al racconto di coste e scogliere bretoni. Alternando il mondo emerso e quello sommerso in una, consueta per l’autrice, ricerca del magico.
In questo tuo ultimo libro c’è molto mare. Ma credo che sia una condizione perdurante visti i tuoi precedenti e forse è anche una condizione esistenziale o è solo un tendere al marino più che l’esserlo?
Il mare per me è un elemento imprescindibile, senza il quale non potrei vivere. Credo di avere un bisogno fisico di far rotolare i pensieri assieme alle onde, di lasciar correre lo sguardo sull’orizzonte blu, di immergermi e rallentare, assieme ai pesci. Sono velista, apneista, ritrattista del mare. A volte, scherzando, dico a mia mamma che è stato necessario che io nascessi prima (a sette mesi), perché dovevo nascere del segno dei Pesci.
Nel tempo ho ricevuto molto dalle correnti, dalla risacca, dalla profondità e dalla superficie, dagli scatti rabbiosi e dalle inquietanti bonacce… E questo libro è da considerarsi anche come un mio tributo, una restituzione grata per tutto ciò che il mare mi ha dato nel tempo.
In particolare hai scelto un mare un po’ più lontano. Posso chiederti il perché dell’ambientazione?
Sono laureata in Filologia Romanza, amante da sempre dei Miti Arturiani, del ciclo cavalleresco, delle leggende bretoni. Ho visitato più volte la Bretagna, il cuore diviso tra i castelli e l’oceano, tra la costa e le leggende. Il mio battesimo “marino” lì è avvenuto di notte, una notte buia in cui ho avuto un assaggio dell’Atlantico con tutti i crismi: mi è sembrato un mostro in agguato, fatto della stessa consistenza della notte, ma ringhiante, con la schiuma alla bocca… Douarnenez è il piccolo paese di pescatori dove mi sono fermata una notta in più, ammaliata da questo scrigno sul mare, le case come rocce, le coste come denti aguzzi che mi hanno morso nel profondo, ammalandomi di nostalgia.
So che, in particolare, sei anche un’appassionata di navigazione a vela e hai con la tua famiglia un’imbarcazione (un First 37 piedi). Cosa ti piace dell’andare in barca?
Sono sincera: l’aspetto sportivo della barca a vela non mi interessa per nulla. Di quello se ne occupa mio marito, io faccio solo da mozzo. Amo navigare a vela perché è un modo lento, silenzioso, ecologico, rispettoso – quasi un sussurro – per stare con e in mezzo al mare. Il fruscio del vento sulle vele, l’impressione di scivolare sull’acqua, è una sensazione meravigliosa. Quando viaggio in barca immagazzino tramonti, barbagli, sorprese marine – come una tartaruga o un delfino che vengono a curiosare – sciabordii, tempeste. Mi ricarico di azzurro, insomma.
Non hai – credo, dimmi tu – grandi difficoltà a transitare per il “genere”. Cosa pensi in particolare della narrativa, della letteratura e del genere? Come lettrice e autrice?
Credo che una storia debba essere raccontata nel modo migliore possibile, e quindi se la scelta ricade su un genere o su un insieme di generi, non me ne faccio un problema. Non credo esistano generi di serie A o di serie B (il fatto che, a distanza di anni, finalmente l’horror di Stephen King sia stato riconsiderato dalla critica, ne è una prova), come non sono convinta che un autore debba avere un etichetta precisa – anche se il mondo editoriale e i lettori, vorrebbero avere questa certezza, questa garanzia. Da lettrice però comprendo il desiderio, quando si legge un bel libro, di poterne subito leggere un altro dello stesso autore che si inserisca nel medesimo solco.
In libreria è più frequente trovare autori con una produzione standardizzata e coerente che non il contrario, perché è più facile e remunerativo, restare nello stesso solco.
Eccomi a due domande personali che ti pongo però in maniera impersonale. Sei un editor, questo credi che faccia la differenza e come quando passi a scrivere (o a leggerti e rileggerti mentre lavori le varie versioni dei libri)?
Il mio lavoro di editor mi aiuta moltissimo come autrice, ma credo anche il contrario, ovvero che pure il mio lavoro di autrice possa aggiungere qualcosa al mio ruolo di editor.
Come editor infatti mi capita di lavorare su libri che magari di norma non leggerei, e questo mi consente di imparare nuove cose, di arricchire il linguaggio, di fare esperienze diverse che poi possono tornare utili. E poi si impara moltissimo rubando dai punti di forza ma anche dagli errori, degli altri.
Come autrice credo di aver raffinato la sensibilità di approccio con gli altri autori: so quanto uno scrittore sia geloso del proprio lavoro, quanto gli sia difficile rinunciare a parti di testo o accettare di intervenire cambiando parti del proprio testo. Perciò, forse, riesco ad avvicinarmi in modo meno aggressivo e più efficace, con gli autori e i loro testi. Ma per averne certezza bisognerebbe sentire il contraltare, ovvero gli autori di Ediciclo.
Sei un editor aggiungo di letteratura di viaggio e una casa editrice – Ediciclo – che negli ultimi anni si è distinta come una delle realtà più interessanti di questo non genere. Quanto ti ha influenzato il tuo lavoro di editor nello scrivere?
Essere editor mi fa vivere il mio rapporto con il testo in modo molto maniacale. Correggo allo sfinimento, leggo, rileggo, stampo, leggo a voce alta… E ho una schiera di beta lettori che leggono la bozza e mi riportano il loro parere. Insomma, cerco di rifinire il più possibile le mie storie e lo faccio anche in corso d’opera, non solo dopo che ho scritto tutto. È un po’ la sindrome di quelle persone che non riescono ad andare in vacanza se non lasciano la casa pulita: io non riesco a scrivere un capitolo nuovo se nei precedenti ho l’impressione che ci sia qualcosa che non va.