Le mai tornate ovvero la memoria delle donne nei campi di concentramento. A partire da due libri.
Considerate se questa è una donna,
senza capelli e senza nome
senza più forza di ricordare
vuoti gli occhi e freddo il grembo
come una rana d’inverno.
Conosciamo tutti queste parole di Primo Levi che aprono il suo libro “Se questo è un uomo”. Le abbiamo scolpite nel nostro cuore, penso soprattutto qui in Italia, come lui ci aveva chiesto e cerchiamo di passarcele di generazione in generazione mentre il gruppo dei sopravvissuti diminuisce sempre più all’aumentare dei giorni che ci separano da quegli anni.
Sono gli storici, i giornalisti, gli insegnanti, i genitori e in definitiva semplicemente gli adulti che devono portare avanti questa eredità memoriale e consegnarla intatta soprattutto a chi ormai non è nato nel ‘secolo breve’ e sente meno l’eco della barbarie del ‘900 in cui la Shoah rappresenta la massima incarnazione della notte del genere umano.
Con queste parole di Levi inizia un libro importantissimo edito in Italia da Newton Compton della giornalista inglese Sarah Helm “Il cielo sopra l’inferno” che ha avuto il merito di portare alla luce la storia del campo di concentramento di Ravensbrück, piccolissimo villaggio nel nord est della Germania, unico caso di campo completamente femminile.
E, caso particolare e interessante, le internare erano prevalentemente prigioniere politiche, zingare, prostitute, disabili…in definitiva donne “indesiderabili” per il regime di Hitler e solo in minima parte ebree.
Himmler aveva fatto costruire questo campo erroneamente definito campo di lavoro che in realtà era campo di concentramento e di sterminio perché un altissimo numero di donne tedesche e di oltre venti paesi europei vi furono rinchiuse e persero la vita a causa di esecuzioni ma anche di atroci esperimenti e di stenti.
Ricordo di aver sentito parlare per la prima volta di Ravensbrück quando, studentessa della facoltà di storia, seguivo il corso di storia delle donne e di genere ma all’epoca le informazioni erano esigue. Grazie a questo testo invece è possibile ricostruire le vicende disumane delle circa 130.000 donne che vi sono state internate e salvare la loro memoria.
A proposito di memoria vorrei scrivere di un altro libro recentemente pubblicato da Readerforblind che sta riportando alla luce capolavori scomparsi.
Questo libro si chiama “Il giunco” di Pia Rimini scrittrice triestina scomparsa ad Auschwitz. Come di moltissime altre persone anche di Rimini non si è saputo più nulla dopo la sua deportazione.
Rileggere questo suo libro significa riportare luce sulla sua vicenda che la ricercatrice Erika Silvestri sta indagando come racconta lei stessa nella prefazione al libro. I genitori di Rimini hanno continuato a cercarla senza mai abbandonare la speranza di un suo ritorno a casa.
Ma l’ultimo documento trovato in quel che è sopravvissuto delle carte di Auschwitz e che testimonia la sua presenza in vita è datato agosto 1944. Poi più nulla.
Questo libro in parte autobiografico parla della storia di Maria una donna molto giovane appartenente ad una famiglia facoltosa e colta che rimane incinta di un uomo che l’abbandona. Questa donna è però forte e indipendente e lascia la famiglia d’origine per rivendicare il suo diritto alla maternità anche in assenza dell’uomo.
È un pensiero modernissimo per l’epoca. Una sfida a viso aperto non tanto o non solo alle convenzioni del tempo ma anche, e soprattutto, al controllo sociale di un sistema patriarcale e maschilista (il libro è stato scritto nel 1930 in piena era fascista) che non ammetteva deviazioni dalla regola che voleva la maternità solo all’interno del matrimonio e la totale dipendenza delle donne dagli uomini.
Rimini aveva vissuto la stessa esperienza ecco perché la sua voce nel romanzo è così vera. In questa voce, in questa penna apprezzata anche da Svevo e Saba possiamo ritrovare questa preziosa intellettuale e se ancora la leggeremo e ne diffonderemo l’opera in un certo senso è come se continuassimo ancora a cercarla.