Francesca Serafini, sceneggiatrice (con Giordano Meacci e il regista piemontese) dell’ultimo (purtroppo sì) film di Claudio Caligari, scrive un ricordo dell’indimenticato autore di “Amore tossico” e una riflessione sulla sua Roma. Una lettera aperta e accorata di cui la ringraziamo. Un buon trailer per andare a vedere “Non essere cattivo” da oggi nelle sale.
C’è una cosa che mi affascina nel gioco del Burraco. E cioè che ti spinge a vedere le carte che hai in mano da vari punti di vista. Perché, se ti ostini a seguire il gioco che avevi pensato fin dall’inizio, magari non ti accorgi che hai già la chiusura, combinando quelle stesse carte in maniera differente. Questa è una cosa che possono capire solo quelli che conoscono il Burraco: e allora m’immagino Claudio che scuote la testa al pensiero di me che comincio a scrivere un ricordo di lui con qualcosa che esclude un certo numero di persone. Perché lui, dal primo momento in cui l’idea di un film lo attraversava fino a quello (purtroppo solo tre) in cui riusciva a chiuderlo, voleva essere compreso da tutti, riuscendoci perfettamente (e qui lo dico da spettatrice dei suoi primi due film, va da sé). Questo mi ha sempre incantato della sua arte: il suo doppio livello di fruibilità. Il racconto per tutti e poi gl’infiniti rimandi per i cinefili.
E insomma, Claudio, mi scuserai se mi alieno una fetta di lettori con questo riferimento così prosaico, però, se penso al modo in cui abbiamo lavorato insieme, mi sembra davvero una radiosa e articolata partita di Burraco (compreso il clima di gioco, appunto, che ha sempre caratterizzato ogni nostro incontro). Le carte di mano ce le hai messe tu – solide e splendenti, con jolly e pinelle a moltiplicare le possibilità estetiche – e io e Giordano un po’ abbiamo aggiunto le nostre; e un po’, col passare del tempo e il crescendo di confidenza, abbiamo aperto altri giochi: a cui immediatamente – e con tutto il nostro stupore – sei stato disponibile ad attaccare altre carte.
Di questa partita, Roma ha rappresentato il tavolo. La Roma di Caligari. L’altra faccia della Roma della Grande Bellezza, che con Claudio avevamo adorato (e quante volte ci siamo detti tra noi che mettendole insieme, queste due facce di Roma, forse si riesce a immaginarsi una possibile sintesi di tutte le infinite variazioni della Città Eterna che esistono e che si possono raccontare). La Roma di Pasolini. La Roma di Cesare e di Vittorio. Quella delle borgate che ancora esistono e che con la Roma delle terrazze ha in comune giusto il consumo di cocaina.
Nella Roma – perché Ostia, è bene ricordarlo, è un municipio di Roma – di “Non essere cattivo” ci si perde nell’accezione senza incanto del termine. Ci si perde per non ritrovarsi più. Oppure in senso etimologico. Per (nel senso dell’indicazione: dove si va per Ostia?) e dare: dunque dare verso qualcosa, che è proprio quello che ha fatto Claudio con i suoi film. Per fare in modo che non ci perdessimo (noi, tutti i Cesare che ha raccontato e che continueranno a provare a non essere cattivi; l’eredità di Pasolini), intanto ci ha dato qualcosa che resterà: e ci ha portato da un’altra parte. In un luogo in cui si ci si può ancora amare ostinatamente come fratelli. Un luogo in cui spero in molti, e per molto tempo ancora, si potranno emozionare nel ricordo di un figlio adottivo speciale di Roma: ché questa volta è stata lei – insieme a tutti noi che restiamo – quella che si è persa qualcosa.
Gli autori
Claudio Caligari, (nella foto con Valerio Mastandrea, uno dei produttori del film) nato ad Arona nel 1948 è morto a Roma nel 2015. All’attivo tre film dilazionati negli anni. Uno di essi un vero e proprio cult “Amore tossico” che conquista la storia del cinema italiano anche per l’ambizione sociologica e la capacità di creare koinè.
Nelle note di regia del suo film postumo aveva scritto tra l’altro: “Osservando le attuali periferie e borgate, immergendosi in quegli ambienti, viene subito da pensare a come oggi suonerebbero assolutamente falsi e fuori luogo quei destini e quei finali cristologici che portavano personaggi come Accattone, l’Ettore di “Mamma Roma”, lo Stracci della “Ricotta”, e ancora il Cesare di “Amore Tossico”, a morire come dei novelli Cristi. Oggi ogni dimensione religiosa è perduta; oggi Accattone va in discoteca, consuma e spaccia cocaina e pastiglie e se poi le cose volgono fortunosamente in positivo al massimo può venirne fuori un finale simile a quello che in “Rocco e i suoi fratelli” suggellava il destino operaio di Ciro, anche se non più nella declinazione viscontiana anni Sessanta, ottimistica e positiva, della grande industria. Un finale di lavoro che per quei terroni spinti al Nord dalla miseria già allora risultava inglobante e omologante al resto della società: un finale di lavoro che oggi in borgata pur arrivando con quattro decenni di ritardo, quando è ormai in crisi e latita nelle parti più avanzate della società, ugualmente sanziona la definitiva, totale, irreversibile omologazione dell’alterità borgatara”.
Francesca Serafini, linguista di formazione, alterna da anni alla scrittura creativa quella saggistica. È editor per diverse case editrici e consulente per la fiction per RSI. Ha pubblicato: “Di calcio non si parla” (Bompiani, 2014) e “Questo è il punto. Istruzioni per l’uso della punteggiatura” (Laterza, 2012).
Matteo Graia, è l’autore delle foto di set.