Camilla Ravera, per chi non la ricorda, fu politica, insegnante e autrice, vicina a Gramsci e alla sua attività pubblicistica. Resistente a tutte le forme di sopruso e marginalizzazione: fasciste e sovietiche. Ne pagò care le conseguenze prima con un confino (oltre ad anni di prigionia) che l’hanno vista anche sulle coste pontine delle isole di Ponza e Ventotene, poi con altre forme di marginalizzazione falce e martello. E’ una madre della patria, tenendo a battesimo, tra l’altro, la neocostituita repubblica italiana, ma pure una paladina delle cause femminili. La ricordiamo attraverso questo contributo di Alida Ardemagni (che ringraziamo), autrice di “L’Italia delle donne. Spunti di viaggio alla scoperta del lato femminile del nostro Paese” (Morellini editore).
Camilla Ravera
di Alida Ardemagni
Nel 1982 è stata la prima donna italiana a essere nominata senatore a vita (artefice Sandro Pertini e si capirà il perché), ma è stata anche la prima donna nella storia dei movimenti politici del mondo a diventare, nel 1927, segretaria del suo partito, il Partito Comunista Italiano. È Camilla Ravera, colonna portante della Resistenza. Camilla nasce ad Aqui Terme nel 1889 e già a otto anni resta fortemente impressionata da un corteo di donne in sciopero, scalze e malvestite: “Fu allora che nacque in me coscientemente l’interesse per la condizione della donna lavoratrice”, scriverà molto tempo dopo. Giovanissima, aderisce al Partito Socialista, poi diventa protagonista, con Antonio Gramsci, del gruppo torinese di Ordine Nuovo.
Nel 1921 è tra i fondatori del PCI, nel quale assume la guida dell’organizzazione femminile, fondando anche il periodico La compagna. Tra il 1927 e il 1930 diventa segretario del partito e si butta a capofitto nella politica, che occupa tutto il suo tempo, lasciando poco spazio ad affetti e progetti familiari. Costretta a entrare in clandestinità, si rifugia in Francia e quando torna in Italia viene arrestata e condannata a quindici anni e mezzo, trascorsi tra carcere e confino sino alla caduta del fascismo.
In carcere è prima a Trani e poi a Perugia, al confino a Ponza (1937) e poi a Ventotene (1939). In questa piccola isola condivide la pena con una dozzina di altre donne antifasciste (tra cui Adele Bei e Cesira Fiori) e di uomini come Sandro Pertini, Umberto Terracini, Giorgio Amendola, Lelio Basso, Luigi Longo, Giuseppe Di Vittorio, Altiero Spinelli, Riccardo Bauer, Eugenio Curiel. A Ventotene – lunga meno di 2 km e larga al massimo 800 m, costantemente battuta dalle onde, esposta ai venti, brulla, priva di sorgenti d’acqua, con una costa frastagliata e rocciosa dalle pareti a strapiombo sul mare – il regime fascista allestisce la più grande colonia confinaria d’Italia, luogo simbolo della deportazione politica. Lì ammucchia e segrega l’opposizione più pericolosa, quella degli “irriducibili”. Sorveglia a vista, con costante pedinamento, uomini e donne da umiliare nelle proprie idee.
Costringe tre comunità alla convivenza forzata: i confinati (più di 800 dopo il 1939), i sorveglianti (circa 350 fra militi fascisti, poliziotti e carabinieri) e gli isolani (un migliaio circa). Su quest’isola – “una ciabatta in mare” la definirà Camilla – è obbligatorio mantenere una buona condotta e lavorare, ma le opportunità mancano, nonostante fra i confinati ci siano docenti, traduttori, sarti, orologiai, ombrellai, agricoltori, allevatori. L’espressione prevalente, ossessivamente ripetuta dalle autorità, è “non si può”. Non si può varcare il limite di alcune vie, entrare nelle case private, scrivere a chi si vuole senza autorizzazione, ricevere giornali e libri, giocare a carte, non si può cambiare dormitorio o mensa, perché sono divisi a secondo dell’appartenenza politica. Per esempio, Camilla mangia in una delle otto mense destinate ai comunisti. “Mangia” è un eufemismo, perché il cibo è scarso (la razione giornaliera è di 56 gr di pasta e di 150 gr di pane) e ci si deve arrangiare, allevando e coltivando qualcosa nella migliore delle ipotesi, altrimenti uccidendo cani e gatti o raccogliendo erbe selvatiche e cuocendo foglie di fico d’India. Insomma, a Ventotene “non si può” vivere, perché il corpo è mortificato e la libertà è umiliata, negata, calpestata.
Ma Camilla tiene duro (in seguito definirà “fesserie” le misure punitive cui è stata sottoposta) e, insieme a Terracini, è l’ultima a lasciare l’isola. Scarcerata, ripara con la sorella in un casolare del pinerolese dove dà lezioni ai figli dei contadini, che, in molti casi, vanno a raggiungere i partigiani. Rientrata a Torino dopo la Liberazione, Camilla diventa consigliere comunale per il PCI, partito con cui aveva avuto delle divergenze di vedute negli anni precedenti. Nel 1947, con Ada Gobetti, esponente del Partito d’Azione, fonda l’Unione Donne Italiane, iniziando a riversare il proprio impegno anche nel campo dell’emancipazione femminile. Nel 1948 viene eletta deputato (lo sarà per un decennio) e riprende con vigore le battaglie di sempre, non ultima quella per la pace. Quasi centenaria, la maestrina dalla penna rossa del PCI muore a Roma nel 1988.
Le isole Pontine sono splendidi e frequentatissimi luoghi di vacanza, ma andare a Ponza, Ventotene, Santo Stefano conoscendo la storia di quei vent’anni (1926-1943) permette di rendere omaggio a uomini e donne che hanno rappresentato la punta più avanzata del dissenso politico al regime, pagando un prezzo molto alto in termini di privazione della libertà, di precarie condizioni di vita, di discriminazione sociale. Il confino di Ventotene è stata la punta d’iceberg di due negazioni: della dignità della persona e della libertà di pensiero, dimensioni insopprimibili dello spirito umano, eppure compresse forse un po’ anche oggi. Delle tre isole, Ponza è la più grande e la meglio attrezzata per il turismo. Ventotene è un’area marina naturale protetta, è più selvaggia e sulle sue scogliere Ulisse ascoltò il canto delle sirene, i nobili romani costruirono sontuose ville, i re borbonici splendide residenze, fortezze e carceri. E Santo Stefano, isolotto separato da uno stretto braccio di mare, ospita un imponente carcere borbonico risalente alla fine del Settecento. È stato un tenebroso luogo di detenzione (Sandro Pertini, che c’era stato, lo definì “il peggior carcere d’Italia”) fino al 1965. Ora è in stato di abbandono, ma alcune visite sono organizzate dal Museo archeologico ospitato nel palazzo comunale di Ventotene.