Arriva a Roma – per la Fiera Più libri Più Liberi a parlare del presente con lucidità e con dovere testimoniale a partire dal suo nuovo libro-incontro con dei ragazzi. Boris Pahor ha superato i 100 anni ma la fibra lucida e forte gli permette di ricordare negli anni anche Roma, una città che, timidamente, dice di non amare.
Che ricordi ha di Roma?
Ci sono stato quando ero in seminario a Capodistria. Mi avevano messo in seminario perché mi avevano tolto la lingua slovena e anche le scuole le ho dovute fare in una specie di forzatura. Non ero capace di capire perché mi venissero proibite le mie parole. In quegli anni, sono venuto a Roma come studente. Ricordo i Musei Vaticani, i grandi monumenti, le chiese del centro.
Le piace la città?
Mi piace Roma ma io sono attaccato a Firenze, per me la culla della civiltà rinascimentale, e a Padova che è la città della mia università. Roma è una città che era imperiale e Mussolini l’ha anche accoppiata male. Non ho un attaccamento a Roma, è una bella città, non dico di no. Tutti i monumenti che restano del passato lo testimoniano. Va visitata assolutamente ma allo scopo di conoscere le cose – non si può dire di non visitarla ma poi, conoscendola, ognuno deve fare i conti con le sue sensazioni e può dire se gli piace o non gli piace.
“Batto a macchina. Scrivo delle note, come un piccolo diario di quello che sto facendo. Faccio molti incontri. Mi interesso anche di altre cose. Sto rileggendo Spinoza credo che bisognerebbe farlo conoscere molto di più oltre che come filosofo. Le sue idee riguardo a Dio all’esistenza dell’umanità sono molto più semplici”. Roma, la cultura: Boris Pahor, classe 1913, più volte candidato al Nobel e da qualche anno riscoperto anche qui da noi come grande romanziere qual è dopo premi e attenzione francesi e americani, è arrivato alla notorietà da noi (in Francia e Stati Uniti è molto apprezzato da anni) a 94 anni – mai dire mai, insomma. Oggi è ancora in piena attività, Boris Pahor, il grande romanziere sloveno di Trieste, che si racconta mentre esce il suo nuovo romanzo “Quello che ho da dirvi. Dialogo tra generazioni lontane un secolo” (Nuovadimensione Editore). E mentre Roma lo attende per una presentazione e un incontro all’interno della Fiera Nazionale della Piccola e Media Editoria al Palazzo dei Congressi.
Di lui avevamo letto qualche anno fa “Qui è proibito parlare” (Fazi). In realtà anche questo, come il precedente “Necropoli”, un capolavoro della letteratura concentrazionaria, uscito per lo stesso editore l’anno precedente con grande successo, è frutto di un instancabile lavoro di anni. Libri scritti e pubblicati in Italia ma nella sua lingua, lo sloveno (che conta circa 61 mila parlanti nella zona orientale del Friuli e in gran parte della Venezia Giulia), e non tradotti nella nostra se non in parte e da piccoli editori alcuni trentini come Zandonai o la Nuovadimensione di Portogruaro. Pahor spiega che poi tutto è cambiato quando “questo editore di Roma, Fazi, ha comprato i diritti e ha iniziato a pubblicare “Necropoli”. Ed è stato un esplodere di interesse nuovo. Continuo a scrivere cose nuove sì anche se gran parte dei miei libri non è ancora disponibile in italiano. Quello a cui mi interesso di più in questo periodo è la scrittura per i giornali cercando di far conoscere temi che da anni sono stati rimossi. E’ necessario creare una cultura amichevole e collaborativa su temi come le foibe, da sempre scomodi”.
Cosa pensa che vada detto ai giovani e cosa sente che sia molto cambiato da quando era giovane lei?
Intanto i giovani non sanno che cosa significava essere giovani anni fa. E da sloveni, per di più: ovvero privati della propria lingua e quindi della propria natura. I giovani oggi sono praticamente senza informazioni. Anche se hanno internet, che pure è importante, come la facilità delle connessioni telefoniche. Ma quando se ne diventa schiavi è finita. Anche le ricerche che si fanno sulla Rete non sono ricerche di studio ma solo curiosità: la superficialità in questo modo aumenta.
Sempre per Nuovadimensione aveva pubblicato nel 2010 “Piazza Oberdan” e nel 2013 aveva curato l’edizione del memoriale di sua moglie, Radoslava Premrl, “Un eroe in famiglia. Mio fratello Janko-Vojko”.
La questione della lingua è sempre presente nei suoi libri e insieme c’è anche la glorificazione della sua cultura, da noi italiani in buona parte misconosciuta. A tratti sembra, addirittura, come in “Qui è proibito parlare” che il romanzo finisca per trasformarsi in una specie di basilare corso introduttivo alla grande letteratura slovena?
C’è sempre stata la questione della lingua qui da noi. Durante l’impero austro-ungarico c’erano addirittura la questione del trilinguismo con il tedesco, l’italiano e lo sloveno e poi con lo sloveno e l’italiano. Trieste è nata come città plurilingue ma al di fuori del comune di Trieste c’è sempre stata una pressione sugli sloveni per cancellare la lingua. Trieste è nata come porto franco. Prima Trieste era piccola cosa, quando l’Austria nel 1717 le ha riconosciuto il porto franco è nata come città bilingue ma l’entroterra è sempre stato programmaticamente molto ostile alla lingua slovena. Già dal tempo degli austriaci era stato difficile ottenere una scuola slovena, si opponevano sempre alla richiesta. E alla fine sono stati gli sloveni stessi a costruirsele da soli le scuole. E’ stata una lotta continua. Una storia antichissima che ci vede da sempre combattere per avere le scuole, per farci valere. E anche quando abbiamo avuto delle concessioni sono state sudate.
Perché si tende a rimuovere una lingua?
Non è la paura ma la dominazione che vuole nascondere una lingua. E’ la riproposizione del teorema francese dello Stato-Nazione. In Francia è già successo con la lingua d’oc. In Spagna sono state fatte tre autonomie. Una storia antica. In Italia, già al tempo di Carlo Alberto con la scelta delle Alpi come luogo di confine sicuro si è finiti per inglobare anche zone non italofone. Loro hanno detto che l’arco alpino essendo luogo naturale di difesa inglobava dalla Valle d’Aosta all’Alto-Adige e poi hanno fissato la regola ‘della nazione di cultura maggiore che ha diritto a inglobare quella minore’. Ed è stata una preparazione di quello che è successo dopo anche da noi. Molti non sanno che lo sloveno nasce come lingua scritta in Germania nel 1550 da Primož Trubar. Ma è al vescovo di larghe vedute Pietro Bonomo che si deve l’influenza alla creazione di questo primo documento.
Sempre in quel libro ci sono pagine molto belle. Sono quelle dedicate a Danilo ed Ema, due solitudini che si incontrano e si rafforzano e allo stesso tempo si corroborano nelle loro scelte civili di resistenza slovena. Tra i due c’è lo sbocciare dell’amore nel ghetto soffocante della minorità linguistica e sociale. Una ristrettezza che prende aria con viaggi in barca al largo di Trieste e poi con azioni coraggiose come la distribuzione carbonara di libri in sloveno per i bambini negli anni della proibizione.
Rileggendo il libro dopo più di quarant’anni (il libro è uscito in sloveno nel 1964 Ndr) mi è piaciuto notare di essere riuscito a fare queste due parallele, tanto la civile che l’amorosa, ben unite insieme. E’ un amore che non è nazionalismo. Praticamente esprimono un antifascismo civile e morale. La mia scoperta della letteratura avviene con Dostoevskij e con i suoi diseredati. E’ stato quello il mio punto di partenza. Non era ancora nato come scrittore e ho pensato che si poteva parlare di noi nello stesso modo, non partendo dal punto di vista sociale ma della povertà della nostra posizione morale.
Oltre alla lingua, quali rischi vede per i ragazzi oggi?
La tanto propagandata unità tra tutte le popolazioni – per dire l’Unione Europea come anche la globalizzazione – sono pericolose perché tendono ad omologare le popolazioni mentre io sono per una sana differenziazioni tra culture e lingue. Questo è un altro elemento rischioso.
Pensa che si possa trasportare il ragionamento sul bilinguismo a quei casi di vero trapianto dovuto a un’immigrazione più recente? Mi riferisco alle tante comunità indiane, cinesi, rumene…
Si sta ponendo in maniera più decisa ancora con la spagnolo negli Stati Uniti e forse finirà come con il francese nel Quebec. Secondo me gli Stati, in genere,dovranno fare la loro per tenere gli immigrati a casa loro che è la situazione ideale perché nessuno di loro si è spostato per piacere ma sempre e solo per bisogno. E sempre c’è alla base uno sradicamento. Anche culturale. Fatto di conoscere un’altra lingua, dimenticare la propria. E questo è il male della gente che deve partire. Si devono riuscire a creare le occasioni perché gli stranieri che arrivano da noi per necessità possano lavorare là dove sono nati e hanno vissuto. Costruire un nuovo colonialismo che crea opportunità e non bisogni anche perché alla radice c’è un dolore e il dolore si perpetua attraverso questi viaggi in nave, i rischi di queste fughe con ogni mezzo. Quando questi popoli si saranno impiantati avranno delle richieste.
Lei è, quindi, in un certo senso, fautore di una specie di stato plurilinguistico…
Ci sarà sempre lo scontro fra lo Stato-Nazione, la teoria a cui la Francia è ancora fedele e che molti tendono a rprendere. Dipende da quello che l’Europa dirà di nuovo, resterà nella posizione dello Stato che governa lui? Non dirà nulla di nuovo. Farà nuovo commercio, nuovo denaro però non sarà la vita di una comunità veramente libera e contenta di vivere in modo nuovo.
Tornando a Roma. Cosa è che non le piace davvero? Il difetto che non le perdona?
Di Roma non mi piace l’idea della potenza. L’idea di una città che è e vuole essere a capo dei popoli, imperium populi. Per conquistare un popolo non c’è bisogno di cancellarlo. E se può essere giusto che la capitale sia a Roma forse l’idea migliore resta quella federale per tenere insieme le tante differenti identità italiane.