“Ventotene, espresso” è il nostro titolo per questo estratto. Incredibile quanto un libro possa così involontariamente avere dovere di cittadinanza in queste pagine. Si aggiunga che il suo autore (Angelo Ferracuti), che seguiamo sin dai suoi esordi, è stato camminatore professionale (leggi “postino”) a cui ha dedicato ora questo “Andare, camminare, lavorare. L’Italia raccontata dai portalettere” (uscito per la Feltrinelli, che ringraziamo per il permesso cortese a questa riproposizione, nel 2015). Si precisi che ha sempre mantenuto una posizione molto laterale e riguardosa rispetto alle nostre lettere, senza scendere a compromessi qualitativi e di marketing. Insomma, benvenuto!
Ventotene. Sull’isola
di Angelo Ferracuti
Sono arrivato da Formia con il traghetto della Laziomar
che traballava ieri sera, sfidando le onde alte, un’ora di traversata
in mare aperto insieme a un gruppo di signori distinti
e colti, e due avventuriste germaniche mature, coi pesanti
zaini in spalla, i bastoni stretti nel pugno, le bandane in testa.
Mentre l’imbarcazione conquistava il mare e ondeggiava fantasticavo
su questo luogo mitologico di confino, non so perché
ma mi tornavano in mente Le mie prigioni di Pellico, i
Piombi di Venezia raccontati da “Casanova” e un film visto da
ragazzo tratto da “I miserabili” con un Jean Valjean che sembrava
Gesù Cristo. Su quest’isola venivano portati tutti i più
pericolosi nemici del fascismo: Sandro Pertini, Umberto Terracini,
Mauro Scoccimarro, Pietro Secchia, Altiero Spinelli, e
naturalmente Giuseppe Di Vittorio. Ammanettati, controllati
dagli sbirri, arrivavano anche loro sui piroscafi dopo traversate
durate molti giorni. A un certo punto della navigazione
si scorgono all’orizzonte due sagome indistinte: una più
piccola di forma circolare come una grande mammella, sulla
sinistra, l’altra più grande sulla destra. Man mano che l’aliscafo
si avvicina si schiariscono come se riuscissi a metterle
finalmente a fuoco, e poi “la ciabatta in mare”, come Camilla
Ravera ha definito Ventotene, diventa finalmente sempre più
visibile, mentre Santo Stefano resta sullo sfondo con in mezzo
il carcere a forma panottica, oggi in rovina.
Quando arrivi a Ventotene è come se non l’avessi lasciata
mai, tutto è famigliare e lo senti come intimo, forse perché è
raccolto in pochi chilometri che si possono fare a piedi da
qui a Punta dell’Arco. Tutto è piccolo e stretto, e si conquista
facilmente. La trattoria L’Aragosta ha già aperto i battenti, i
tavoli sono apparecchiati, un banco di pesce fresco dal lato
opposto, pronto per essere cucinato, e più avanti la stradina
che costeggia il porto romano, con sotto le tante barche ormeggiate,
di lato la friggitoria, e l’immancabile banco coi prodotti
locali, le pregiate lenticchie, i sottaceti. Quando sono
arrivato in piazza Castello era tutto pulsante e vociante, i tavolini
dei bar pieni di gente, i bambini correvano a piedi o sopra
le biciclette, tutto era colorato e illuminato da un sole caldo
che inteneriva.
Ventotene non ostenta, non fa mai l’occhiolino al turista.
Se vai al bar Verde, dove c’era la mensa Rosselli di “Giustizia
e Libertà”, e bevi un bicchiere ai tavolini sotto il pergolato,
proprio di fronte alla torre borbonica, ti senti come a casa, la
gente operosa di qui, e cioè gli agricoltori che curano gli orti,
o i marinai che vanno a mare con le piccole barche, continuano
tranquillamente la loro vita come se tu non ci fossi. Tutto
è miracolosamente naturale e normale, ma l’ospitalità è talmente
forte che non ti accorgi neanche di essere un turista,
diventi un isolano anche tu in breve tempo.
Allora la cosa più naturale da fare in un luogo come questo
è godersi il suo mare, scoprire le calette o le piccole spiagge
attrezzate, o immergersi in quello che i sub di una certa
esperienza considerano un vero e proprio paradiso naturalistico,
coi suoi straordinari giardini marini, oppure prenotare
una gita in barca per raggiungere Santo Stefano o fare il periplo
dell’isola. La spiaggia più grande è Cala Nave, che sta
sotto l’albergo dove alloggio, con una terrazza con vista stupefacente,
di grande fascino quella di Cala Battaglia, sabbia
nera e scogli, raggiungibile dal mare. Basta prendere in affitto
una barchetta e spostarsi lungo il perimetro dell’isola per incontrare
calette da sogno, dove l’acqua è limpidissima e incontaminata.
La mattina, al risveglio, osservo la spiaggia dal balcone
della camera, qui davvero senti il mare dentro. In cielo solo i
versi sgraziati dei gabbiani aggrediscono il silenzio che avvolge
l’abitato.
Il portalettere va a metà mattinata al porto quando approda
la nave Tetide, che sbuca dal largo annunciandosi con
la sirena, preleva le cassette gialle della posta, arrivando dove
in attesa ci sono villeggianti, uomini della Capitaneria di porto,
finanzieri e carabinieri. Per prima esce a passo d’uomo
l’autocisterna con il carburante, guidata da un ragazzo abbronzato,
che viene qui a rifornire i pochi mezzi che viaggiano
lungo le strade dell’isola. Le auto degli alberghi caricano i
clienti, apecar vengono a prelevare bagagli e pacchi.
Guerino è un portalettere da sempre isolano, ha consegnato
qui ma anche a Ponza e conosce tutti, tanto che già arrivato
alla trattoria L’Aragosta i saluti si sprecano. Lui a Formia
è stato anche in politica, come consigliere comunale, è
uno abituato a fare quelli che chiama “i ragionamenti”. Cammina
e pensa al destino dell’isola. Mi parla della decadenza
della politica, “i giovani,” dice, poi facendo un gesto con le
mani e strofinando i polpastrelli del pollice e dell’indice insieme,
come a dire sono di poca sostanza. Lui ha un’aria sempre pensosa
in un faccione abbronzato, la testa calva e i capelli
bianchi, una flemma filosofica perenne.
Già prima di piazza Alcide De Gasperi ha fatto le sue prime consegne: ristoratori,
negozianti. Un portalettere delle isole deve prendersi
casa, la posta arriva sempre molto tardi, giusto il tempo
di sistemarla e metterla “a giro” e l’orario sarebbe già scaduto,
così in certi posti come questi si consegna a tutte le ore,
certe volte anche fino al tramonto, quelle che Guerino chiama
“le consegne personalizzate”, perché qui non ci sono cassette
dove imbucare e non puoi avvisare uno che in quel momento
non è in casa, ma che potresti incontrare quattro o
cinque volte per l’isola in tutto il resto della giornata.
Arriviamo alla biblioteca intitolata a Mario Maovaz, l’esponente
mazziniano che conservò nell’isola la Biblioteca del Confino,
ma è chiusa. Davanti c’è il baretto che ricorda il “Manifesto
di Ventotene” scritto qui a quattro mani nel 1941 da Altiero
Spinelli ed Ernesto Rossi e Ursula Hirschmann a sessant’anni
dalla pubblicazione. Nel tavolo vicino c’è un vecchietto
dai capelli bianchissimi molto preso da una briscola, che racconta
a tutti quando Spinelli, l’uomo che lui considera un
padre, in tempi di miseria gli comprò un intero guardaroba.
Torniamo indietro e prendiamo per via del Muraglione.
All’incrocio, dove parte un’altra strada in salita c’erano i casermoni
dei confinati, mi spiega il portalettere che cammina
lentamente, arrancando sotto la calura. “Nella parte alta del
paese dove si trovavano le coltivazioni dei locali non potevano
andare, c’erano le garitte che li bloccavano. Di Vittorio
organizzava gli orti da questa parte.” Sulla piazza, vicino a
quella che fu la mensa Rosselli di “Giustizia e Libertà”, è collocata
una libreria di quelle veramente indipendenti che non
passa inosservata, diretta emanazione di questa storia gloriosa,
che sono una forma di resistenza culturale in Italia, così
come lo slow food rispetto al fast food, di cui peraltro il portalettere
del quale sono al seguito è stato in tempi non sospetti
uno dei fondatori all’epoca dell’Arci-Gola.
La libreria è aperta solo nel periodo estivo, mi spiega il proprietario Fabio
Masi, “i ventotenesi che leggono sono quasi esclusivamente
donne under cinquanta, e i bambini sono l’altro grandissimo
segmento di lettori, mentre i turisti comprano molti libri legati
alla storia locale, che è una storia talmente ricca che sono
affascinati da quello che è successo in questo luogo, sia dal
punto di vista naturalistico che da quello storico”. Il portalettere
è un buon cliente, l’ultimo libro acquistato “Senza tregua”
di Giovanni Pesce, l’eroe della Resistenza italiana e garibaldino
in Spagna appena quattordicenne. “Dai tempi di
Giulia, la prima a essere esiliata qui” racconta il libraio,
“Ventotene e Santo Stefano sono stati sempre utilizzati come
luoghi di prigionia, e con lei inizia questa triste tradizione di
esilio al femminile, per cui vengono esiliate qui donne delle
varie famiglie imperiali, o uccise sull’isola come Ottavia, la
prima moglie di Nerone.”
In epoca borbonica la sua vocazione
concentrazionaria si rinnova quando viene costruito il
carcere. “Transitano qui tutti gli oppositori politici come
Gaetano Bresci, che viene ucciso a Santo Stefano, fino ai tanti
antifascisti che furono esiliati a Ventotene.” Davanti un
banco con tutti classici dell’argomento: saggi, testimonianze,
diari, compreso C’era una volta una guerra dello scrittore
americano John Steinbeck, inviato per il “New York Herald
Tribune”, che per sei mesi, tra il giugno e il dicembre 1943,
raccontò lo sbarco alleato e la liberazione dell’Italia, compresa
la Ventotene Mission.
Guerino adesso è stanco, il caldo si fa sentire e continuiamo
a girare per il paese ancora per le ultime consegne, tanto
che il pizzaiolo napoletano del 22, che ho conosciuto stamattina,
ogni volta che mi incontra mi sfotte dicendo: “Viene da
Fermo ma cammina sempre”. Infatti qui sono più i campani
che i laziali veri e propri, e si parla una lingua locale “che non
è neanche casertano e napoletano”, come sostiene il portalettere,
“ma più genericamente campano, anche perché le famiglie
storiche dell’isola vengono da Torre del Greco, Boscotrecase,
e dopo duecentocinquant’anni è molto più italianizzato”.
La sosta al ristorante L’Aragosta finito il giro è d’obbligo.
Il pesce è buono, abbondante, e cucinato bene, ma pur essendo
un’isola Ventotene non ha una cucina solo marinara.
“La tradizione è marittima,” mi spiega sornione Guerino, “in
realtà è un posto agricolo. Qui si fanno le lenticchie, i carciofi,
gli asparagi selvatici, e a tavola si mangia il ‘ciambrotto’,
uno stufato di verdure.” Molto del pesce cucinato d’estate
arriva da fuori. Lui questo luogo lo conosce intimamente,
come conosce toponomastica e persone: “Qui non c’è il civico,
non ci sono i nomi sui campanelli, non ci sono cassette
d’impostazione, devi avere la capacità mnemonica di ricordare”.
E lui è anche un appassionato di nomistica, o meglio
genealogia, ha iniziato ad apprenderla in Lombardia quando
lo chiamavano “el pustin terun”.
“Mi piace studiare la storia delle famiglie, quella dei territori.
Stranamente a Ventotene non c’è un cognome onnipresente,
anche se c’è un ceppo dei Gargiulo, dei Langella, è una
piccola comunità che ha avuto sempre nuovi innesti, diversamente
da Ponza”. Che cos’è un’isola? Riflette. Tante cose.
“Le bellezze naturali, certo,” sostiene sicuro di dire un’ovvietà,
“le spiagge, il mare, ma solo se uno frequenta l’isola nel
crudo inverno è considerato uno di loro, viene messo al corrente
dei pensieri più reconditi”. Se uno viene qui d’inverno,
allora sì che può capire che cos’è “la gestione positiva della
solitudine,” come la chiama lui, “perché anche se si è in pochi
si può ragionare su tutto ciò che avviene nel mondo”,
come capitò ai confinati che qui nel corso delle stagioni ragionarono
sui massimi sistemi.
Più tardi, nel pomeriggio, ho percorso a piedi tutta via
degli Ulivi, e più mi allontanavo e più cambiava tutto intorno
nei canneti, la vegetazione di palme e fichi d’india selvatici,
come se il corpo fosse rimasto isolato dal resto, lontano dalle
voci e dalle case colore pastello. Sono arrivato al Museo della
Migrazione, l’osservatorio ornitologico unico in Italia e tra i
più importanti d’Europa, e oltre ancora lungo una strada
stretta costeggiata di villette e vegetazione selvaggia, dove
solo in un paio di punti si scopre il mare azzurrissimo che
circonda la terra. Andando avanti si fa tutto più raccolto e
solitario tanto da farti immaginare la natura veramente selvaggia
che può esserci qui in inverno, quando Ventotene diventa
un’altra isola, fatta il contrario di questa. Non il luogo
sereno e accogliente della villeggiatura, con le sue spiagge
piene di corpi desiderosi e nuotatori che si spingono oltre le
scogliere, ma deserta, fredda e ventosa come la descrisse angosciata
Cesira Fiori, una insegnante confinata: “Triste, triste
è Ventotene dominata dai venti che l’avvolgono in una nube
costante di polvere e di sabbia, che ti fa uscire di senno, che ti
intacca gli occhi; e appena te ne puoi liberare ecco davanti a
te, minaccioso e sinistro, l’isolotto di Santo Stefano, a non
più di due chilometri, con la brulla scogliera a picco, e, sulla
sommità, il vecchio Castello ergastolo le cui mura sembrano
un prolungamento della roccia nerastra, sulla quale sono visibili
a occhio nudo le rampe per accedervi, […] e il mare vi
sbatte sempre con furia accanita”.
Angelo Ferracuti ha esordito nel 1993 con la raccolta di racconti “Norvegia” (Transeuropa) a cui sono seguiti i romanzi “Attenti al cane” (Guanda, 1999), “Nafta” (Guanda, 2000) e “Un poco di buono” (Rizzoli, 2002). Scrive inoltre reportage narrativi: “Le risorse umane” (Feltrinelli, 2006), “Viaggi da Fermo” (Laterza, 2009) e “Il costo della vita. Storia di una tragedia operaia” (Einaudi, 2013).