Après-midi a Forte Bravetta, tra gesti eroici e orrore.
Uno dei temi speculativi che mi affascinano da sempre è quello delle sorelle (e dei fratelli). Più di quello ultranoto e storicizzato, analizzato e geneticizzato delle/dei gemelle/i. Non so se è per essere io parte di un analogo di questi doppi ma lo trovo un campo di curiosità fascinose e inquietudini non tormentate. Chi dei due protegge chi? Chi ha bisogno di chi a dispetto dell’età e della forza? E anche: è sempre stato così o i ruoli si sono invertiti negli anni?
E mi ammalia l’idea che ognuno abbia sviluppato abilità a favore o a dispetto dell’altro, perduto capacità e demandato facilità in relazione al suo doppio. Mi riferisco a questioni anche squisitamente fisiche. Fratelli e sorelle formano, poi, una specie di repubblica autonoma, autarchia ludico-affettiva con cui si finisce per bastare all’altro e a se stessi. Dico tutto questo per raccontare un mio piovoso primo pomeriggio a Forte Bravetta con sorelle. Chiara e Giulia che, cresciute da queste parti, mi guidano e mi fanno compagnia in questa perlustrazione urbana.
Abbandoniamo il certo della via per l’incerto del piccolo parco e ci troviamo davanti una mamma e una bambina che smaltiscono il pranzo appena trangugiato in allunghi dimagranti. Forte Bravetta (edificato come forte alla prussiana dopo il 1870 e divenuto deposito di munizioni nel 1919) ci guarda con la sua marziale compostezza erbosa. L’osserviamo nella sua inespugnabilità da fossati e ponti levatoi e proviamo a dimenticare le cose che sappiamo di questo attuale inoffensivo abbandono. Sul terrapieno, infatti, durante la Seconda Guerra Mondiale, trovarono la morte “organizzata”, per fucilazione, tanti partigiani e oppositori al nazismo. Le esecuzioni – come si legge nel libro di Augusto Pompeo “Forte Bravetta. Una fabbrica di morte dal fascismo al primo dopoguerra” (Odradek) – furono di uno standardizzato lugubre rituale:
“La sentenza – o comunque l’ordine di fucilazione – di norma è letta da un ufficiale tedesco; i condannati sono ‘rigorosamente’ fucilati alla schiena secondo ‘la tradizione italiana’. (…) Al forte i condannati arrivano sullo stesso furgone che poi ripartirà per il Verano; fatti scendere, sono condotti sul ‘terrapieno’. Se sono pochi, si utilizza una sola sedia; se sono molti, le sedie sono due o tre e i condannati sono fucilati sotto gli occhi dei compagni, che attendono il loro turno”.
Così muore anche don Morosini, sacerdote per cui persino l’ateo Pertini spenderà parole “evangeliche”. Il destino di questo condannato sarà però al rallentatore e truce. Benedicendo il plotone sarà graziato dal pentimento di qualche tiratore e cadrà solo ferito per essere finito da un ufficiale tedesco con due colpi alla nuca. “A imperituro ricordo” di questi sfortunati una lapide eretta nel XXIII anniversario con i loro nomi su marmo (le cui vicende sono doviziosamente raccontate nel libro di Pompeo) ci dà l’ultimo commiato e non ci solleva il ricordo di quello “stringimi le mani, non è niente, la guerra passerà” cantato dai Baustelle nell’ultima canzone, La morte (non esiste più).
Forte Bravetta ha purtroppo avuto qui dolori definitivi ma noi siamo venuti per l’eroismo e nell’eroismo ce ne andiamo. Pensando che questo sì non passerà, oltre le targhe ricordo.
Da fare
Un po’ distante ma vale la pena: mangiare Da Cesare – via del Casaletto, 45 – tel. 06 536015