Goethe e Roma. Fiumi di parole avrebbe detto un audace paroliere. La casa editrice napoletana – ma particolarmente attenta alle cose romane – Intra Moenia ha mandato in libreria nel 2015, portandosi avanti, un “Viaggio a Roma” (chiaro spin off, come si direbbe oggi, del suo “Viaggio in Italia”). Stiamo parlando sì del diario di viaggio del grande Johann Wolfgang Goethe. E il portarsi avanti sta a dire che quel libro, meglio la sua pubblicazione festeggia quest’anno, con amicizia nel nostro paese che lo ha sempre gradito, i suoi 200 anni. Un nostro saluto.
Di questi tempi 200 anni è una bella misura per dire “evergreen”. E per dirlo di un libro tutto sommato minore e, verrebbe da pensare, minore. Ma non è così. Nella introduzione al libro la curatrice Concetta Celotto parla giustamente di “autobiografia, romanzo di formazione e diario di viaggio”. Non le sfugge la forza di un testo che, se anche nella penna dell’autore si presenta come diario calibrato e voluto della permanenza, nei risultati trascende l’intenzione “turistica”. E manifesta non solo la “nordica smania di lavoro” dell’autore (per citare lui stesso) ma anche i vertici artigiani che questa ha raggiunto.
Goethe di Roma dirà cose lusinghiere e cose più problematiche. Quotiamo:
“Una scuola troppo grande per poterla lasciare così presto”;
“Sì sono arrivato finalmente in questa capitale del mondo!”;
“Eccomi a Roma, tranquillo e, a quanto sembra, acquietato per tutta la vita”;
“Vivo qui con una serenità ed una calma di cui da tempo non avevo alcun sentore”;
“Io voglio vedere Roma, la Roma che resta, non quella che passa a ogni decennio”;
“Anche a Roma si fa troppo poco per coloro che attendono seriamente ad uno studio generale”;
“Adesso e qui soltanto cominciano davvero i miei studi”.
Spesso tutto nel suo diario parte da dati eventuali. Massime il tempo che tipicizza il clima cangiante e irruento di Roma. Il solleone per cui “la sera prendo un bagno nel Tevere, in certi camerini comodi e sicuri”. Gli acquazzoni, le brezze.
Non gli possono sfuggire i grandi monumenti romani davanti ai quali si estasia: Cappella Sistina, l’amato Raffaello, Castel Sant’Angelo, San Pietro, il Domenichino a Sant’Andrea della Valle e il Carraccio a palazzo Farnese.
Ma va a bere tutte le mattine all’Acqua Acetosa di cui ama i panorami, frequenta il bel mondo anche se marca “Vorrebbero cacciarmi in mezzo al gran mondo, ma io sfuggo”. Annota parimenti il vantaggio dello stare qui, “fra un popolo dotato di tanta sensibilità” cosa che ritiene “moralmente salutare per me”. E poi però: “questi matti hanno fatto un gran baccano”.
Nota che con il diffondersi del turismo, Roma si è piegata ad arti minori. Non gli sfugge la scena e si reca all’Opera (“Il Teatro dell’Opera non mi diverte; solo ciò che è profondamente ed eternamente vero mi può dare gioia”) come al Valle a vedere un’operetta.
Roma è tutta davanti ai suo occhi percorsa fino allo sfinimento topografico. Dal Corso che è “una delle poche vie di Roma mantenute pulite durante tutto l’anno”. A Frascati e Albano da cui disegna anche lui come i suoi amici vedutisti. La piramide di Caio Cestio è poderosa, la tomba di Cecilia Metella “una costruzione solida”. Il Colosseo che quando lo si è visto “il resto sembra sempre meschino” la sera diventa ricovero di “mendicanti” e base per un “eremita”. Il Campidoglio “da me fin qui trascurato”.
Va in barca sul Tevere a bere vino rosso di Spagna. Il Tevere lo affascina – anche quello del porto di Ripa dove va a prendere amici in arrivo via fiume.
Certo, essere Goethe ha i suoi vantaggi: “Il 28 novembre ritornammo alla Cappella Sistina e facemmo aprire la Galleria”. A Trinità dei Monti assiste alla posa del nuovo obelisco (gli obelischi lo affascinano – anche quello che ora ammiriamo a Montecitorio e che lui vede in terra -, tutte le altezze sembrano suggestionarlo). L’Acqua Paola a San Pietro in Montorio che zampilla dal lago di Bracciano lo incanta per questa sua composizione di marmo e liquido primo. E’ una febbre: vede a va a rivedere “per due o tre volte” i monumenti più notevoli.
La Grande Bellezza Romana lo esalta. Quella dei capolavori – ed è tutto un profluvio di visite nei musei, nelle chiese, nelle case dei pittori (l’elenco infinito: quello classico con Guercino e Guido Reni fino a uno stuolo di vedutisti che sembrano quasi coautori di una sorta di storyboard che segue e precede le sue righe di inchiostro). Quella dei paesaggi veri. Tanti. Ad esempio, sale in cima a Villa Patrizi, in zona Nomentana, e alla Colonna di Traiano e guarda tutto dall’alto.
La visione è un tema necessario per il suo incontro e racconto della città. La visione dall’alto e quella dal basso. Uno sguardo continuo che non può mancare neppure la tempesta di gente per le strade, come quella del Carnevale romano, a quei tempi si manifestava in tutta la sua sarabandesca allegria perigliosa: “non precisamente una festa che si offre al popolo, ma uan festa che il popolo offre a se stesso”. Si accosta ai monumenti “più grandiosi” ma “poco alla volta”. L’atto di conoscenza è graduale. Con note critiche verso gli architetti moderni rei di aver “devastato” quello che i barbari hanno lasciato in piedi.
E poi via con dolore. Sentimenti questi – stupore, ammirazione, dolore – che non finiranno di renderci quest’opera cara. E viva. Attuale, in ogni caso.