Un ricordo di Gino Cesaretti a partire dall’ultimo romanzo, tecnicamente postumo.
Gino Cesaretti (Lucca, 21 marzo 1917 – Bobbio, 13 dicembre 2015), aviatore e agronomo ma poi destinato a una lunga carriera editoriale in Mondadori, ha avuto la fortuna di conoscere la letteratura dei Vittorini e dei Calvino passando per quella cruna d’ago che è stata la collana einaudiana “I gettoni” (leggere la tanta saggistica al riguardo nonché il bilancino dei risvolti di copertina). Poi qualche altra prova narrativa e, infine, silenzio.
Il romanzo s’intitolava “I pipistrelli” ed uscì nel 1957. In quello stesso anno fu incluso nella rosa dei selezionati al “Premio Strega” vinto, poi, da Elsa Morante con “L’isola di Arturo”. Il libro, per essere stato selezionato da Vittorini su segnalazione di Eugenio Montale, può essere considerato il suo testo più importante. Eppure non abbastanza apprezzato. Montale, infatti, si lamentava che certe opere valide, come quella di Cesaretti, non riuscissero a richiamare l’attenzione dei maggiori critici dell’epoca.
Altri due importanti libri usciranno con l’editore Parenti: “Il sole scoppia”, del 1960, ambientato a Milano, e due anni dopo “Il violino del pilota” che reca l’impronta presente in altre sue opere, del ruolo di pilota militare – durante la Seconda guerra mondiale l’autore era stato infatti impiegato in numerose missioni tra la Sicilia e Malta. Nella raccolta di racconti la sua città, Lucca, fa da sfondo frequente. Nel 2006 da Manni Editori è uscito tardivo e in tempo per la correzione definitiva prima della malattia che lo aveva invalidato, la raccolta di poesie, “Attese disattese”, che ha ricevuto una menzione d’onore al Premio di poesia “Lorenzo Montano” del 2007.
Ma è di “Lucido e buio”, uscito tecnicamente postumo per Bolis, che vogliamo parlare. Un’opera a cui attese trent’anni e che ora viene meritevolmente diffusa da questa piccola casa editrice bergamasca a pochi mesi dalla scomparsa del quasi centenario autore lucchese. Il romanzo ha un ritmo sinusoidale e segue le gesta di un gruppo di ragazzi in cui spiccano la mente tormentata di Filippo, Gregorio in preda alla vocazione religiosa e Quinto alle ambizioni letterarie. Se è vero che la parte più bella è toscana e ha un’asprezza che ricorda i suoi commilitoni letterari Tobino e Pea, la parte dedicata alla capitale (la seconda: “A Roma! A Roma!”) rispecchia quella corsa al successo in un contesto sentito però come avulso anche se curioso.
Roma vi compare sulla scorta di Gregorio soprattutto. Ma anche di Quinto che la definisce “spavalda, sterminata, accogliente, aggressiva, corrotta e insieme pura”, E ancora: “A Roma il tuo avvenire sarà legato alla discrezione e alla tua ipocrisia esaltata dalla tua permanenza nel seminario, alle tue capacità di sopportare calunnie e numerose altre insidie”. Il corso di avviamento all’uso dell’Urbe a favore di Gregorio sarà completato da quello del capitano che accompagna Filippo “Roma è noiosa (…) In certi giorni insopportabile”.
Passeremo con i protagonisti l’Appia Antica, San Pietro, piazza del Collegio Romano con il suo museo astronomico. Poi Tivoli. Ma sempre passando per la stazione Termini e per l’aeroporto (immaginiamo quello di Ciampino, destinato ad usi militari, non essendoci al tempo del romanzo ancora Fiumicino ed essendo l’aeroporto di Roma-Urbe – nato come aeroporto del Littorio il 21 aprile 1928 – di via Salaria dedicato ad usi civili anche se convertito poi ad usi militari in tempo di guerra).
Cesaretti è uno scrittore che ha profuso nella cura estrema di questa sua prova definitiva la padronanza dell’impianto e della prosa senza per questo cadere nella leziosità. Ci auguriamo che il volume incontri quella giusta circolazione che gli augurava Montale agli inizi di carriera fino a diventare quel classico d’accezione calviniana che ha ancora tanto da dirci.