Salutiamo l’uscita di “Buio in sala. Guida breve ai cinema romani” di Stefano Scanu (Giulio Perrone Editore), una piccola rassegna di sale scritta come un racconto personale. In questo testo il piccolo cinema Palma di Trevignano sul lago di Bracciano.
Roma mette insieme sale non più sale e sale resistenti. L’elenco è infinito. In maniera personale Stefano Scanu ne ha messe insieme alcune. Rinate o morte, insieme aggiunge i suoi di ricordi, alternandoli alla storia più o meno recente del cinema e ai film lì visti. L’idea non può che nascergli morettianamente dalle “Chiusure Estive” e forse dall’osservazione “campanilistica” – in senso proprio – che cinema piccolo (o “pidocchietto” come si diceva lustri fa, senza lustrini) significa essenzialmente sala parrocchiale. Ma la rassegna ne enumera altri che di clericale hanno poco. Noi abbiamo scelto per voi il Cinema Palma a Trevignano, sul lago di Bracciano.
Una storia liquida
di Stefano Scanu
Non so se sia stata la forza centrifuga di questa ricerca
romana a spingermi fuori dalla città o piuttosto la volontà
di assecondare un bisogno esotico. Il fatto è che percorrendo
la Cassia in direzione nord, ho avuto l’impulso di uscire.
Sono sceso verso il lago di Bracciano, anzi l’ho visto crescere
e brillare chilometro dopo chilometro, mangiarsi l’orizzonte
d’asfalto fino a impallare tutto il campo visivo del
mio parabrezza. L’ho perso di vista solo per poco, nascosto
tra gli alberi, finché non sono arrivato a Trevignano.
Fabio Palma mi aspetta alla sua pompa di benzina proprio
di fronte al cinema che fondò il nonno. Quando arrivo
sta finendo di montare le gomme sul mozzo di una Volvo,
probabilmente compiendo lo stesso gesto con cui fino
a qualche anno fa caricava le “pizze” nel proiettore, prima
che arrivasse quello digitale. Non mi aspettavo un cinematografaro-benzinaio
ma questo pragmatismo mi piace.
Ci sediamo nel suo studio in officina che funziona anche
da centro operativo del Cinema Palma. C’è una vetrinetta
con le candele, i filtri dell’olio e altri ricambi mentre
sulle pareti ci sono alcune foto di registi e attori.
«Le storie sono quasi sempre tutte uguali, soprattutto
quelle che hanno a che fare col cinema. Parte tutto dal
nonno, passa per il padre fino ad arrivare al figlio. Se sei
bravo e se ci tieni». Quando Fabio parla non vedo le labbra
muoversi ma solo i suoi densi baffi brizzolati. Se li accarezza
mentre ricorda tutta la storia, quella del nonno falegname
che si chiamava come lui e che sembra fosse l’unico in
paese in grado di fare la punta alle barche. un signore che
negli anni ’40 sgombera la propria falegnameria sul lungolago
per metterci dentro un proiettore Balilla e fare il cinematografo.
Poi il fascismo che lo obbliga a proiettare i documentari
dell’Istituto Luce fino allo scoppio della guerra
che ferma tutto. morirà poco dopo, mitragliato da un aereo
americano in ricognizione.
In ufficio si affaccia un tipo che chiede quanto costa
cambiare filtro e olio, Fabio lo rimpalla a un dipendente,
l’officina può aspettare, adesso è occupato col cinema.
Cerca di riprendere il filo del racconto mentre scarabocchia
qualcosa sul calendario della programmazione di
agosto.
«Si può dire che mio padre abbia traghettato il Palma
da mio nonno a me».
una storia iniziata da un carpentiere che correggeva le
barche degli altri e amava i film, non poteva che produrre
un cinema galleggiante. Nell’immediato dopoguerra l’Italia
è attanagliata da un’ondata di siccità che si beve ogni
cosa, il lago si ritira e i sassi cominciano ad affiorare sotto
il promontorio montecchio. Qui inizia la seconda generazione:
Fernando (figlio di Fabio senior e padre di Fabio junior)
prende la barca e comincia a trasbordare sassi da una
sponda all’altra manco fosse Caronte. Costruisce un vasto
massetto proprio accanto alla vecchia falegnameria e lì fa
sorgere il nuovo Cinema Palma. Primo film proiettato Il
re si diverte di mario Bonnard, circa trecento spettatori, incasso
totale 840 lire. Fabio mi mostra il cartellone dell’in-
tera programmazione del 1945: è l’epoca dei telefoni bianchi,
tra gli altri film spiccano Pazza di gioia e Luce nelle tenebre.
«Il nostro non è nato come cinema d’essai, era un cinema
popolare, della ricostruzione e poi delle commedie all’italiana.
La sala si riempiva da sola, la gente faceva la fila
senza lamentarsi. Era il lavoro più facile del mondo».
Poi la solita storia degli anni ’70 e ’80, con gli italiani
che si innamorano delle neonate tv commerciali e smettono
di uscire per rinchiudersi in casa. Il salotto diventa una
sala di proiezione privata in cui ogni sera vanno in scena
Alvaro Vitali, Tomas milian ed Edwige Fenech. I cinema
si adattano e contrattaccano.
Fabio mi scandisce tutta la settimana dell’epoca:
«martedì commedia all’italiana, giovedì un western o
una pellicola d’avventura, sabato e domenica film per la famiglia
e musicarelli, i rimanenti giorni chiuso».
ma per non fallire non è sufficiente. Così un giorno alla
settimana si comincia a proiettare un porno, «l’anticamera
della chiusura» prima che l’home video rovini pure questo
svago. Se la prima volta era stata la guerra, stavolta ci pensano
la liberalizzazione dell’etere e l’intrattenimento domestico
a far chiudere il Palma.
È proprio a questo punto però che le cose cambiano e
non è vero che le storie di cinema vanno sempre nella stessa
maniera. Ci sono voluti più di quarant’anni ma, al terzo
tentativo generazionale, il benzinaio si fa imprenditore illuminato
e prende il controllo della situazione. Partecipa a
un salotto in cui è raccolta tutta l’intellighenzia lacustre
che aveva scelto Trevignano e Anguillara come proprio
buen retiro. Tutti riuniti nel tentativo di rilanciare la scena
culturale del posto e salvare il lago dalla selvaggia speculazione
edilizia.
Fabio guarda l’orologio dell’officina, la montatura nera
e spessa degli occhiali non è sufficiente a nascondere le sopracciglia.
È ora di pranzo ma nessuno di noi due ha intenzione
di smettere per andare a mangiare. Fa una pausa
e riprende a parlare nel mio registratore. Sciorina tutti i
nomi di quel collettivo d’avanguardia braccianese che aveva
deciso di adottare il cinema Palma per farne il nuovo
centro di aggregazione culturale: Angela Zucconi, Licia e
Giuliano Nencini, William Azzella, orfeo modenesi, Giuseppe
Tomassetti, tutti nomi che hanno rimbalzato fino a
me dal lontano 1986. Quel pomeriggio decisero che sarebbe
diventato un cinema di qualità, un cinema d’essai.
«Sembra impossibile ma prima di conoscermi quella
gente neanche lo sapeva che a Trevignano c’era una sala cinematografica».
Non stento a crederlo invece, ho come
l’impressione che il Palma sia una grande chiatta attraccata
lì per caso e che qualcuno nottetempo possa sciogliere le
cime per lasciarla andare alla deriva. magari i dirimpettai
della vicina Anguillara, orfani del Cinema Sabaudia, una
sera lo traineranno fino alle loro sponde per animare la vita
del paese.
Quando nel 1986 si riaprono i battenti, è lo stesso Fabio
ad andare ogni martedì a Roma per procurarsi le pellicole.
Stavolta il film della nuova inaugurazione è Impiegati
di Pupi Avati, c’è pure il regista a fare da padrino. In
quegli anni sullo schermo del Palma passano Paris, Texas
di Wenders, La messa è finita di moretti, il Decalogo di
kieslowski. Niente bibite né patatine, nessun intervallo,
segue dibattito. Per ogni proiezione si stampa una scheda
del film da distribuire agli spettatori. Non c’è ancora internet
ma l’osservatorio delle suore paoline dell’Eur che raccolgono
e catalogano tutto lo scibile umano. Barattando
un vasetto di miele o dell’olio con delle fotocopie dall’archivio,
Fabio otteneva tutte le informazioni sui film di cui
aveva bisogno.
«È cambiato il pubblico e sono cambiati i film», sono
vere entrambe le affermazioni. oggi non ci sarebbero più i
casi d’isteria che si registrarono al Barberini durante le proiezioni
dell’Esorcista così come i film hanno smesso di fare
il percorso che dal grande schermo li portava nelle sale di
seconda visione. ormai o nasci blockbuster o nasci d’essai.
Gli chiedo se si sente un resistente, l’ultimo soldato
giapponese nella foresta a cui nessuno ha detto che la guerra
è persa.
«Neanche per sogno, non sopporto il pietismo di certi
miei colleghi».
Intanto questo cinemino liquido ha preso il largo. Dagli
anni ’90 a oggi organizza il premio AIACE (Associazione
italiana amici del cinema d’essai), un festival internazionale
del cortometraggio, inaugura un’arena estiva e aumenta
il numero di sale. Non fa che crescere, è pur sempre un
esercizio commerciale che deve fatturare e camminare da
solo, non può contare solo sulle sovvenzioni. Se nessuno si
interessa più a quello che hai da dire e alle tue idee, tanto
vale che ti ritiri e chiudi. È una legge di mercato.
Fabio accende il pc e mi mostra le immagini di questa
storia come delle illustrazioni.
C’è una foto seppiata della storica pompa dell’AGIP, il
cinema straziato dalla terribile tromba d’aria del ’54, il vecchio
proiettore, Salvatores, Verdone, Virzì, mazzacurati.
C’è perfino michelangelo Antonioni che festeggia i suoi
novant’anni nella sala gremita, ha portato con sé pure la
statuetta dell’oscar.
«Andiamo a vederlo allora questo cinema». Lo seguo
mentre attraversiamo la strada, pochi metri con quell’uomo
che ha cambiato le cose prima che le cose cambiassero
i suoi progetti. Gli chiedo se ricorda il primo film che vide
al cinema. «È impossibile distinguere perché io dentro al
cinema ci sono nato e cresciuto, era la mia sala giochi».
Saliamo direttamente nella torretta di proiezione, scura
come dev’essere. Il ponte di comando della goletta Palma
capitanata per oltre settant’anni da Angelo Parissi, altro
nome che viene da lontano e che per tutte e tre le generazioni
non ha mai smesso di sbrogliare matasse di celluloide,
avvolgere e riavvolgere non saprei neanche dire quante
storie. Scendiamo nelle sale con le poltrone blu come l’acqua,
insonorizzati da tutto. Dietro una tenda c’è una porta
e dietro ancora il lago. È così vicino che si potrebbe quasi
godere il film con i piedi a mollo. Penso che se al suo posto
ci fosse stato il mare, lo sciabordio avrebbe disturbato lo
spettacolo facendo fluttuare ogni cosa. Con il lago invece
è tutto più discreto.
Il giro è quasi finito ma prima Fabio vuole mostrarmi
l’arena. Montiamo sulla sua moto, entrambi senza casco.
«una volta m’ha beccato pure Striscia la notizia che giravo
senza, m’hanno fatto il servizio». Saliamo per una collinetta
appena sopra il livello della strada e ci troviamo su una
terrazza aggrappata alla roccia viva, con le sedie inchiodate
a terra. L’arena, il cinema cabriolet. Si è spostato, ampliato
e rigenerato un’infinità di volte il Palma, come quasi tutti
i cinema di questa storia, mobili e inquieti. Domani inizia
la programmazione all’aperto. Sotto di noi c’è l’officina e
poco più giù il vecchio cinema, è tutto raccolto qui il regno
di Fabio.
Mi siedo su una poltroncina scolorita dal sole, davanti
a me due ragazzi stanno finendo di montare il telo. Guardo
a sinistra. Di nuovo il lago.
(Le foto sono dell’archivio di Fabio Palma).