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flânerie e viaggetti

Passeggiata a Rieti

Una passeggiata a Rieti, nel suo puro isolamento.

Aggirato a est lo spelacchiato, ma dalle forme sinuose, monte Elci, dopo un tratto ancora con qualche abitazione, benzinai ecc., la Salaria sale (se ne accorge la mia macchina che ha qualche problema) attraversando boschi bellissimi. E’ questa credo l’area boschiva più grande e più bella tra
quelle vicino Roma, che arriva fino a Rieti, e corona la sua conca.

Terra di boschi l’alta Sabina, e, anche, di alberi famosi: la quercia di Garibaldi, la quercia di San Nicola, il faggio di San Francesco, che si piegò per proteggerlo, l’olivone di Canneto, il più grande d’Europa sembra, secondo alcuni risalente addirittura a Traiano.

E questi boschi io non li conosco quasi per niente, io sempre bazzicante la Sabina bassa, perché più vicina a Roma, è solo da poco che ho scoperto Rieti e la sua splendida conca.

Parcheggio a Porta Romana, sulle strisce blu. Chiedo a un passante come si fa a pagare, mi indica un parcometro, come quelli di Roma, 80 cent però, un po’ meno.

Prendo la stradina che porta in centro, che doveva essere poi l’antica Salaria, e ecco il ponte sul Velino. Si chiama Ponte Romano ma è moderno, quello romano sta sotto, crollato. Sulla spalletta guardo il fiume: mi ha sempre colpito la trasparenza dell’acqua, si vede il fondo perfettamente con le piante acquatiche e i sassi, i pezzi sparsi del ponte antico. Mi chiedo se esistano in Italia altri capoluoghi di provincia con un fiume così limpido.

Ho appuntamento qui con un amico reatino, Felice Paniconi, compagno all’Università a Roma e al mitico Laboratorio di poesia di Elio Pagliarani (era la fine degli anni settanta), poi ci siamo un po’ persi, come succede. Mi volto e eccolo, ha una maglia rossa fiammante, è invecchiato molto meno
di me, cioè è rimasto uguale, non so come, e ha al fianco due belle fanciulle. Me le presenta subito, sono Micol e Marta, sue allieve all’Istituto per Ragionieri dove insegna (oltre a essere poeta e cultore di cose reatine, Felice insegna, e da come parla con le ragazze e da come le ragazze parlano con lui, noto che ha un invidiabile dialogo con gli allievi).

Ci mettiamo tutti e quattro sulla spalletta a guardare il fiume, i colori dell’acqua verdi e azzurri nella luce forte della giornata estiva, le rive
erbose, le barche, le papere e la gente che passeggia. “Mi viene in mente – dico – quel quadro di Seurat…”, “la Grande-Jatte – dice Felice ridendo – ma qui è molto più piccolo”, e le ragazze: “Ah, il Puntinismo!”, e fa piacere trovarle preparate. C’è una strana barca sulla riva, una specie di
bicicletta montata su due galleggianti. “Stanno preparando il Palio della Tinozza”, spiega Felice, una gara di remi su tinozze fra i vari rioni, ognuno ha la sua tinozza con i suoi colori ecc. Ma il sole picchia parecchio, ci andiamo a rifugiare in un bar con tavolini all’ombra.

Parto subito in quarta e chiedo a Felice: “Questa storia dei collegamenti, dell’isolamento di Rieti, responsabile per la gran parte della crisi che l’economia cittadina vive ormai già da un po’, ma a che cosa è dovuta?
Sulla Salaria ci ho messo un sacco a arrivare, coi camion che non puoi superare, coi limiti a settanta ecc. Ma può una città capoluogo di provincia confinante con Roma, non essere a lei collegata con una ferrovia?”.

Felice e anche le ragazze mi guardano un po’ titubanti e strani. Felice
comincia a parlare di politici locali che hanno navigato lungo costa, che non hanno avuto slancio, accenna anche a qualche altra ipotesi, ma poi allarga le braccia e ammette: “Sono i reatini che l’hanno voluto, l’isolamento”. Le ragazze pur schermendosi sembrano approvare, ridono soffrendo un po’, ma io le prevengo: ”E questo mi conferma dell’incredibile bellezza, e sapienza, di questa città.

Ma scusa, siete pochi, solo cinquantamila, in questa terra splendida e fertilissima, in questa conca beata, ricca d’acque e bellezze naturali, monasteri francescani e risorse turistiche a non finire (non solo il Terminillo), ma che ve frega!”.

“In effetti coi tempi che si profilano all’orizzonte…” aggiunge Felice, e ricorda che la terra, ai tempi dello sviluppo industriale negli anni 60-70, non fu trascurata, e ciò aumentò i redditi dei nuovi operai che rimasero in parte contadini, e adesso dopo la conversione ai centri commerciali, ipermercati ecc. e conseguente crisi, la terra fa da salvagente”.

“Adesso poi siamo meno dipendenti perché abbiamo l’Università”, dice Marta, non so se ironica.

“Ma i reatini la snobbano”, dice Micol. “I reatini – dice Marta – non amano le novità”, e riporta un esempio: i campionati mondiali che qui si tengono di atletica leggera, per importanza tra i primi dieci nel mondo, richiamano molta gente da fuori, ma i reatini non ci vanno.

A questo punto mi alzo in piedi e dico: “Questa cosa di non amare le novità è la vera sapienza, è la cosa che non vi farà mai cadere col culo a terra” – dico guardando negli occhi le ragazze, e loro ridono – “Avete visto il ponte su cui eravamo prima? E’ moderno (pensate soprattutto alla spalletta), ma dialoga perfettamente col ponte antico, con la natura, con tutto. Ogni cosa, a Rieti, è così, potrei farvi altri cento esempi. E’ tutta restaurata, curata, ma voi non ve ne accorgete quasi. La novità non irrompe, non sgomita, ma è temperata, armonizzata. Come i nuovi operai che rimasero un po’ anche contadini. Far quella spalletta non è facile, credetemi. Si tratta di trovare il centro”.

“In che senso?”, chiede Micol. “Nel senso del giusto mezzo dei Latini e di Orazio, che io sospetto fosse, ancor prima, dei Sabini”, rispondo.

Qui ribatte Felice: “Ma allora potrebbe essere a questo connesso il mito reatino del centro, l’antica credenza di Rieti Umbilicus Italiae, centro d’Italia, riportata già da Virgilio e Plinio…”.

“Senz’altro sono collegate”, dico. Felice aggiunge che non sa con che satellite o programma ha visto dall’alto i monti della conca reatina come un cerchio perfetto.

Ci alziamo dai tavolini e saliamo per via Roma, il corso principale della città. Felice mi fa notare una cosa che non sapevo: sotto i nostri piedi, interrati, ci sono grandi archi romani, la strada era un ponte che collegava la parte bassa del fiume con la rocca alta, e ai nostri lati dove adesso sono case, vie, c’era il vuoto. Alla nostra destra c’è una chiesa romanica, con rosone e facciata splendida.

Entriamo. E’ una libreria. L’interno è barocco, con stucchi e trompe l’oeil, e una cupola moderna a tronco di cono. Un altare è ricoperto di libri. Usciamo e riprendiamo a salire. “La sera qua non si cammina dalla gente”, dico io. “Macchè, solo il sabato, purtroppo” ribatte Marta.

Propongo di passarci, per il “centro” evocato, Piazza San Rufo Centro d’Italia. Arriviamo in una piazzetta semplice, povera. C’è una chiesetta barocca, e un “irish pub”, (per sdrammatizzare, penso). C’è una pergola e una panchina arrugginita, invasa di oleandri. Il sole bacia i muri e li
cuoce.

Le ragazze devono andare, e anche Felice, e anche io. Ci salutiamo. I bambini giocano su quella specie di colonna mozza che indica il punto preciso del centro, opera di architetti contemporanei, non brutta, ma che i reatini hanno ribattezzato “la caciotta”.




Di claudio damiani

È nato nel 1957 a San Giovanni Rotondo. Vive a Rignano Flaminio, nei pressi di Roma. Tra le sue raccolte poetiche ricordiamo "Fraturno" (Abete, 1987) e "Attorno al fuoco" (Avagliano, 2006, Premio Mario Luzi, finalista Premio Viareggio). Per Fazi Editore ha pubblicato "La miniera" (1997, Premio Metauro), "Eroi" (2000, Premio Montale), "Poesie", "Il fico sulla fortezza" (2012, Premio Camaiore, Premio Brancati) e "Cieli celesti" (2016).