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Tutto troppo

Spesso è tutto troppo. Gaia de Beaumont in “I bambini beneducati” (Marsilio) racconta con ironia la storia di una bambina nella Roma degli anni Cinquanta e Sessanta di una famiglia aristocratica. In questo estratto iniziale, il ritratto di una madre ingombrante. Ringraziamo autrice ed editore per la concessione del brano.




La mamma, per me, non era instabile di nervi e piena di tic come dicevano tutti. Io con lei avevo pochi rapporti ed ero piccola per giudicare. Aveva però un occhio un po’ storto. Più di una volta parlandole mi era sembrato di essere davanti a un semaforo rotto.

Era però vero che aveva delle mani molto belle con dita snodate e lunghissime. Sulla scrivania in camera c’era una fotografia di quando era incinta di me, pallida e con i capelli lunghi appoggiati alle spalle.
Quella “brava ragazza” di molti anni prima, sorrideva allegra all’obiettivo con una sigaretta in mano e l’altra appoggiata sul ginocchio. Il ritratto era piccolo e perfettamente quadrato, annegato in una luce gialla. Sicuramente da giovane, in America dove aveva vissuto a lungo, aveva riso alle battute degli altri e si era innamorata di qualche stupido e ricco John o Paul di buona famiglia.

Poi cosa era successo? Quando si era intristita? Perché si era messa a bere due bottiglie di vodka al giorno?
Mia madre aveva il suo modo di fare le cose e non capiva come mai gli altri si irritassero così tanto. Perché non mettersi l’olio d’oliva sui capelli come faceva ogni mattina? Odore d’insalata? Asciugamani marroni? Macchie sulle poltrone e i divani?
«Non so assolutamente di cosa stiate parlando».

Quel che è certo è che provava una fortissima avversione per i bambini e anche se aveva un po’ di tenerezza nei miei riguardi, la verità è che non mi sopportava. Quando sentiva in corridoio i terribili tonfi dei miei piedi di bambina diceva, «che succede? Stiamo ballando la rumba lassù? Ma cos’è questa? La strada maestra?» Poi chiudeva gli occhi come volesse decifrare un mistero. Come mai quando si parla di bambini si dice sempre che hanno dei “piedini”?




Considerava quei rumori, zampate inumane di un elefante infuriato che colpivano terra con un’arroganza fuori del normale. I bambini in realtà non camminano – diceva – prendono a calci il terreno. Sono eccessivi in ogni loro gesto. Mangiano con troppa bocca, baciano con troppe labbra, piangono con troppe lacrime, amano e odiano, si disperano e gioiscono con partecipazione tale e tanta da essere volgare: come una donna troppo truccata, una casa troppo ricca, un paesaggio troppo bello.

Se un bambino ti abbraccia, non ti afferra la schiena con la punta delle dita, ma fa aderire tutte le braccia e le mani e tutto quello che riesce ad agguantare di te. Forse è come quegli animali piccoli che la natura ha dotato di un dispositivo di finto ingrandimento: quando sono aggrediti o fanno la danza dell’amore spalancano ali che raffigurano occhi immensi e gonfiano il pelo, per sembrare all’altro più grandi. Così fanno i bambini con il suolo.

Il loro vero desiderio sarebbe quello di camminare sulle mani, per appoggiare le palme e così impossessarsi del pavimento, come fanno dell’aria con le loro gesticolazioni esagerate. Non potendo camminare sulle mani, danno tremendi colpi al terreno con il tallone per avvisarlo: «Ohé, guarda che sono qui, sei mio», e per avvertire il mondo d’intorno del loro sensazionale arrivo, perché secondo un bambino la più straordinaria notizia che il mondo possa ricevere è quella del suo arrivo. Mammà li odiava. Secondo lei non capivano nulla. Hai voglia a dire che erano intrisi di sensibilità.




Forse era anche vero ma si trattava della sensibilità più deleteria. Delle connessioni logiche, loro, non sapevano che farsene. Proprio lei che aveva impiegato buona parte del suo vigore giovanile a capire, ammettere e sopportare che, in fondo, la sua esistenza non contava niente, assisteva a quella sceneggiata naïf e demenziale, a quella convinzione sbagliata e immeritata di avere importanza solo e soltanto perché si esiste.

Esattamente quel che avrebbe desiderato non aver perso della sua infanzia: essere amata sempre e comunque solo perché respirava.
«Diciamoci la verità… in questa casa manca un vero uomo…!» era il lamento ricorrente di mia madre, quelle rare volte che eravamo seduti tutti e quattro a tavola: lei, mio padre, Miss Blu – la governante – e io. Non lo diceva proprio ogni giorno ma, certo è, che lo diceva molto spesso e ogni volta quella osservazione disorientava tutti.

Il suo colpo di cannone aveva lo stesso effetto di un cartone animato in cui il protagonista esplode insieme alle sue intenzioni offensive. Erano delle battute che avevano la particolarità di essere acute non in quanto a intelligenza, ma in quanto discorso acuto. Erano frasi pronte per essere citate, quasi contenessero già le virgolette. Ignorando la nostra reazione, ci guardava tutti di sottecchi come se fossimo stati creature a otto zampe da schiacciare. Anche quando stava zitta, sprigionava disapprovazione. È possibile che semplicemente non le piacessimo molto e che usasse una specie di umorismo caustico per cercare di accettare, lei per prima, che le cose stavano così. Doveva essere difficile, immagino, non riuscire a farsi piacere la propria famiglia.

Ero ancora piccola a quel tempo e non capivo assolutamente di cosa parlasse. Mio padre faceva un cenno con la testa come se stessimo patteggiando qualcosa da suggellare in seguito con un gruppo di avvocati mafiosi e la tavola da pranzo diventava improvvisamente un intricato gioco emotivo di scacchi.

Alzavo lo sguardo sugli uomini di casa come se loro mi potessero dare tutte le risposte: il maggiordomo e papà, chiedendomi come mai le venisse in mente un’affermazione del genere. Papà era papà e il maggiordomo sembrava però non fare una piega. All’epoca non sapevo quanti anni avesse, ero però certa che fosse in quella zona amorfa (per me) tra i quaranta e i sessanta.




Nella sala da pranzo molto illuminata risultava di un pallore smagliante. Nel complesso sembrava uscito da una foto antica o da un dagherrotipo. I pantaloni dall’abito classico e la giacca con i bottoni dorati davano l’impressione di solidità quadrata. Aveva una bella postura, che mio padre chiamava sempre “il portamento” di una persona – dritto e con le spalle larghe senza sembrare rigido. Per ovvie ragioni non partecipava alla conversazione e dava l’impressione che non lo avrebbe mai fatto per discrezione, alterigia e ironia.

Si comportava come se fosse stato l’unico vero padrone di casa mentre si piegava ad angolo per servire Miss Blu. Dopo sarebbe toccato a me ma io mi sentivo come un pezzo di carta buttato per strada che si lasciava trasportare dal vento pensando: Ora credo che volerò da questa parte, ora credo che volerò da quell’altra. La risposta che sostanzialmente davo a tutto era: Chi se ne importa.

Papà abbassava lo sguardo sul piatto e cominciava a muovere le labbra come nella promessa di una grande risposta. Appena un attimo di silenzio immobile poi mormorava a mezza voce, scuotendo la testa: «Chiudi quella fogna di bocca… Quando la apri escono solo un mucchio di porcherie.»