Il diario-romanzo di Maria Eisenstein – ora per Mimesis editore – è una testimonianza importante sulla deportazione.
“Non ricordo più quando mi è venuta l’idea di scrivere. Non ne avevo mai voglia e sebbene qualche volta, come già prima in libertà, ne senta un certo bisogno, non ne ho gran voglia neppure ora” scrive Maria Eisenstein e ha paura che possano scoprire il suo diario.
D’altro canto, ammette che “è un sollievo per me trascrivere alcune piccole cose che si svolgono qua dentro; mi serve da reazione, da sfogo”. Vorrebbe avere ancora qualcosa da raccontare: “qualcosa di reale, di vivo, che fluttui, che abbia azione… Ma qui dentro tutto è stasi: non c’è azione. C’è solo agitazione”. Quella di lei che scrive e quella delle sue compagne che soffrono con e come lei la reclusione forzata. Sono “rapidi movimenti psicologici: un urlo muto. Un urlo dell’anima, uno spasimo, un dolore, un odio, che non si traducono in fatti veri”. In tutti i casi la Eisenstein non si nega il piglio della scrittrice.
Per questa ricerca dei fatti o per la loro impossibilità questo libro è prezioso. Lo è anche per la forza della scrittura.
Ma chi era realmente Maria? E quali sono, nel suo testo, gli esatti confini tra fiction e realtà, tra “diario romanzato” e denuncia civile?
Tenta di rispondere Carlo Spartaco Capogreco, professore associato di Storia contemporanea all’Università della Calabria, e grande conoscitore del tema concentrazionario, nel testo che accompagna il volume.
La risposta che possiamo dare in prima battuta è che la viennese Maria Eisenstein (al secolo Maria Luisa Moldauer Steele – 1914-1994) nacque in una famiglia ebraica di origini polacche e, negli anni Trenta, si trasferì a Firenze per frequentare l’università. Si laurea in Belle Lettere nell’ultima sessione consentita agli ebrei dal governo fascista – siamo nell’autunno del 1939 – e viene arrestata ed internata in un campo di concentramento. La guerra per lei inizia così nella seconda metà del 40, nel campo di Villa Sorge a Lanciano, campo che raccoglieva donne dissidenti con il regime o semplicemente sgradite perché ebree.
Il resto è in questo non diario e non romanzo, che ora Mimesis rimanda in libreria. Nella sua prima edizione, “L’internata numero 6”, fu apprezzato per il coraggio della sua viva (e recente) testimonianza nell’ottobre romano del 1944. Una primizia che finì per costituire anche la prima presa diretta su un campo di concentramento dell’Italia monarchico-fascista.
“Più mi agito e più mi pare di essere in un mondo fittizio, non vero. O meglio: meno mi pare di essere io, in quel mondo. È un’altra, è il numero 6, che ha, sì, la sua personalità perché è 6 e non 59 né 23, ma non sono io. E dove sono io…?” il profilo non chiaro a se stessa emerge come in un disvelamento.
Spartaco Capogreco ci restituisce il volto della Eisenstein, il percorso di vita, una tessera sorprendente e ancora ben conservata della memoria dei cambi di sterminio e della Shoah. La storia del campo di Lanciano, in Abruzzo, di cui racconta con tristezza ontologica la vita nel campo: “perché siamo in ritardo all’appello o alla mensa, perché parliamo con le donne di servizio, perché siamo, insomma. Sì, perché siamo”. Si viene condannati perché si è. Questo il bollino nero del campo e della deportazione.
Un bollino che offusca i gestori del campo abruzzese: prima il Podestà del paese, poi il funzionario di Pubblica Sicurezza Eduino Pistone, quindi Maria Anna Fusco in Marfisi, una casalinga lancianese.
Dalla deportazione fortunatamente riuscirà a scampare lavorando poi per gli Alleati a Roma intrattenendo rapporti con Brancati e Accornero e, dopo un matrimonio celebrato dal rabbino Elio Toaff, raggiunerà tra i “salvati” gli Stati Uniti (morirà a Los Angeles nel 1994), insieme alla madre anche lei sopravvissuta alla Shoah. Negli States lavorerà come giornalista.
La sinfonia del dolore rimane purtroppo in queste pagine e da queste pagine ci parla ancora: “piccoli dolori entrano nel dolore già sovrano padrone dei sensi, come un violino si unisce a un’enorme orchestra sinfonica”. Non possiamo non testimoniarlo anche noi.