Boris Pahor compie 104 anni domani. Gli rendiamo omaggio con un estratto dal suo “Piazza Oberdan” (nuovadimensione) – ringraziando autore ed editore per la concessione del brano.
Ho già dedicato alcune pagine, tempo fa, alla sua scarsa rilevanza dal punto di vista architettonico, tuttavia mi sono spesso reso conto di essermi limitato in più di qualche aspetto, così da doverci ritornare, e di nuovo ora ci ritorno per correggere quel pressapochismo generato dalla fretta.
Proprio così, solo che non si tratta solo di fretta ma anche della constatazione che all’uomo non sempre è concesso rievocare i duri cimenti che richiedono una narrazione scrupolosa, sia essa una fedele rappresentazione del vissuto. Ad opporsi è una reiterata immedesimazione, e sin dalle
prime battute deve resistere alla tentazione di riempire troppi fogli.
È il caso di questa piazza con il suo contenuto, se così posso chiamarlo, poiché la sua importanza risale a tempo addietro, agli inizi del ventesimo secolo, quando, per via della caserma che allora occupava lo spazio su di un lato, si chiamava Piazza caserma.
La caserma era lì anche conclusa la Prima guerra mondiale, e spesso noi ‘muli’ dal muro, lungo la salita che portava alla caffetteria Fabris a Scorcola, spiavamo i soldati mentre saltavano le buche e superavano gli ostacoli nell’ampio spazio dove oggi sostano le auto e, di fronte al palazzo del tribunale, c’è un parcheggio sotterraneo a due piani.
Nella piazza, a quel tempo, c’erano dei pozzi – uno anche in stile arabo – e delle lavanderie.
Poi la piazza venne rinominata come piazza Oberdank o più esattamente Piazza Guglielmo Oberdan senza la lettera k alla fine, poiché lo studente ventiduenne Guglielmo l’aveva voluta cancellare dal proprio cognome. Era figlio di una ragazza slovena del Goriziano, Marija Jožefa Oberdank, che l’aveva avuto da un uomo del Veneziano e poi gli aveva trovato un padre adottivo che si era molto premurato per l’educazione del ragazzo, tanto da mandarlo a studiare a Vienna, alla facoltà di ingegneria.
Ciò che accadde fu che il giovincello si entusiasmò, nella cerchia formata da italiani, per il movimento irredentista che a Trieste si era affermato in particolare dopo il 1870, quando l’esercito italiano, con l’occupazione dello Stato papale, aveva conquistato la capitale dell’Italia unita.
La Trieste dei commercianti non avrebbe accettato che la città finisse sotto il potere di Roma, ma l’irredentismo influì talmente sull’opinione pubblica che i cittadini piano piano si rassegnarono all’idea. D’altra parte il potere austriaco, confidando nella propria forza, si dimostrò
fin troppo condiscendente nei confronti delle aspirazioni italiane.
Queste erano ovviamente contrarie alla parte slovena della popolazione, la quale non avrebbe tratto alcun profitto nel sostituire il padrone viennese con quello romano. C’era stato poi un precedente significativo: il modo con cui Roma aveva assimilato gli sloveni della Benecia, dopo che questi – con il plebiscito del 1866 – si erano espressi a favore dell’Italia, fidandosi della benevolenza di Mazzini verso i popoli slavi non emancipati.