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Let it D.

Let it D. Ovvero la parabola della Lady di (apparente) cristallo, Diana.

Amo i perdenti.

Li trovo più interessanti dei vincenti. Anche se dei vincenti mi incuriosiscono le storie rocambolesche. Il colpo di genio, l’incontro fortunato, il vuoto improvviso che hanno occupato. Ma, spesso per disillusione, tendo a minimizzare dei meccanismi che, per quanto fortuiti, hanno delle loro logiche.

Anche i fallimenti hanno delle loro logiche, è chiaro, ma mi entusiasmo di certe resistenze. Resistenze, ho detto. Non resilienze: che pure è un termine che concettualmente apprezzo ma trovo diabetica la festa di manageriale incitamento che ne accompagna l’uso.

Amo i perdenti, gli sfortunati. Non è una sindrome dello specchietto retrovisore, no. Perché io amo i perdenti che non crollano, che resistono. Quelli che ti giri al tuo specchietto e stanno ancora lì. Non ti sorpassano è vero ma non si allontanano. Non diventano un puntino nello specchio. No.

In questi giorni mi sono chiesto perché Lady D. fosse tanto amata e ho trovato una mia risposta. Una che soddisfa me. So che è una ricchezza complessa di risposte quella che dà chiusura a questa domanda. Come cercare di capire il successo di un libro o di un gruppo musicale.

La mia risposta è questa. Lady D. rappresenta non la fata turchina ma la giovane donna comune con le sue sfortune, le sue difficoltà e in fondo sì anche le sue sconfitte. Un matrimonio non felice che pure partiva da premesse lusinganti. Forse problemi con la suocera? Forse tante altre cose. Fino alla fine più drammatica di tutto questo interesse che poteva suscitare la sua vita “aliena” da coraggiosa sconfitta.

Certo uno potrebbe dire che poteva andarle peggio ancora prima di quel tragico incidente. Chiaro. Eppure tutta la sua parabola sembra precedere e convergere verso la sconfitta totale. Che però in definitiva tale non è. Perché anche essere sconfitti è un’operazione che richiede molta forza e lei ha dimostrato di averla fino alla fine.




Faccio ammenda: in genere non amo le storie delle case regnanti. Non le trovo interessanti forse per la mia premessa. Ma il caso di Lady D. vale una eccezione. E già per il fatto stesso che questa giovane donna principessa è stata eternata in un soprannome che la rende casuale e anonima come lo è solo una lettera puntata. E questo non è principesco affatto. Essere come tutti è il sogno di base almeno quanto essere diverso dagli altri che è, in definitiva, il sogno dei mediocri.

Vincere – se la vittoria è stata costruita sul nulla – è solo un anticipo dell’ultima clamorosa sconfitta. Anche perdere si avvicina a esserlo. Ma c’è il caso di quando si perde sapendo di vincere diversamente. Ecco: perdere così, saper perdere, perdere bene è la più grande delle vittorie e questo, anche inconsciamente, lo sanno tutti.

Di roberto carvelli

Founder e direttore di "Perdersi a Roma" collabora con Il Messaggero, il Venerdì e Nuova Ecologia. Ha pubblicato libri di prose, poesie e narrativa di viaggio tra cui "Letti" (Voland), "AmoRomaPerché" (Electa-Mondadori), "La gioia del vagare senza meta" (Ediciclo), "Fùcino" (Il Sirente), "Il mondo nuovo" (Mimesis), "Andare per Saline" (Il Mulino) e "I segni sull'acqua" (D editore).