Che fine hanno fatto i locali della nostra adolescenza e giovinezza? Che male hanno fatto gli chef per scontare questo triste oblio? Lo scrittore Federico Platania insegue i fili della memoria perduta delle sue digestioni romane in un pezzo tra racconto e bisogno di salvezza. E iniziando da Il Re dei Mari.
- IL RE DEI MARI – Piazza Augusto Lorenzini
Una cosa che neanche internet riesce a salvare dall’oblio (ebbene sì, per quanto possa sembrarci incredibile ci sono risposte che perfino la grande rete non è in grado di darci) è la storia di alcuni ristoranti ormai chiusi. Non parlo di storici locali del passato, ma di comuni esercizi che non avevano nulla di memorabile a parte il fatto che ci siamo andati a mangiare spesso nel corso della nostra vita e dunque sono entrati a far parte dei nostri ricordi.
Ho provato a recuperare, con Google, qualche notizia relativa al ristorante “Re dei mari” che si trovava a Piazza Augusto Lorenzini, a Roma, a qualche centinaio di metri dalla casa in cui ho abitato con i miei fino a quando ho compiuto ventisette anni. E non ho trovato nulla. La cosa, in fondo, non mi stupisce.
Il “Re dei mari” era un ristorante di periferia che non aveva speranza di guadagnare particolare notorietà. Il quartiere Portuense, nei primi anni settanta, si trovava all’estremo confine sud-occidentale della città. Su una delle vie che circoscrivono la piazza in cui c’era il “Re dei mari” sorge la chiesa di Santa Silvia. Che c’entra questo, adesso? C’entra, perché qualche anno fa, la chiesa di Santa Silvia ha realizzato una mostra storico-fotografica del quartiere e del territorio della parrocchia. Ho così potuto vedere alcune foto che risalivano più o meno agli anni in cui io e i miei genitori andavamo a volte a cenare al “Re dei mari” e ho potuto constatare, come vuole il luogo comune, che all’epoca, lì, era tutta campagna.
Dunque qualcuno aveva pensato di aprire un ristorante di pesce in quella periferia semideserta, contando sullo sviluppo potente che investiva quel tipo di aree urbane e che, effettivamente, ci fu. Ma il “Re dei mari” chiuse molto presto. Io non ne ho ricordi successivi ai miei cinque o sei anni. Posso supporre che il ristorante abbia lavorato fino al 1977, non di più. Oggi al suo posto credo ci sia una palestra. Cosa rendeva il “Re dei mari” un luogo speciale (per me che all’epoca avevo appunto cinque o sei anni)? Intanto il fatto che per raggiungere la sala fosse necessario scendere una scalinata ripida. Il “Re dei mari” era insomma un ristorante sotterraneo (visto il nome, ero legittimato a pensare – io bambino – che fosse un ristorante sottomarino). All’ingresso, poi, c’era una gabbia con un pappagallo. Con un po’ di pazienza era possibile fargli ripetere una o due parole che i gestori del ristorante gli avevano insegnato (pochi anni dopo, Rai Due avrebbe trasmesso un programma televisivo destinato a diventare popolarissimo, in cui – tra le altre cose – bisognava riuscire a far dire al pappagallo in studio la parola “Portobello”. Ma io, grazie al “Re dei mari”, avevo già visto una simile meraviglia, e dal vivo!).
La terza cosa che per me era fonte di incanto era la scenografia del locale. Le pareti della sala erano dipinte di colore azzurro, decorate con immagini marine, e soprattutto addobbate con reti e gusci di conchiglie. Sembrava insomma di trovarsi all’interno di un’attrazione da luna park. Oggi – a meno che non siano di qualità professionale – le scenografie interne dei locali mi comunicano sempre un senso misto di tristezza e ridicolo. E sono convinto che anche le decorazioni appese alle pareti del “Re dei mari” fossero piuttosto posticce. Ma il mio io di cinque anni non la pensava affatto così ed era felicissimo di stare seduto per un paio d’ore in quella sala azzurra.
La casa in cui abitavo con i miei genitori e il ristorante “Re dei mari” distavano circa seicento metri. Penso che la maggior parte delle volte ci siamo andati in auto (il maggiolino Volkswagen che aveva mio padre in quel periodo) senza problemi a trovare parcheggio a piazza Lorenzini, che ora invece è uno dei posti più caotici di quel quartiere. Ma immagino anche che qualche volta abbiamo fatto la strada a piedi, percorrendo il tratto di via Giorgio Pallavicino fino all’incrocio con viale Sirtori e prendendo poi quest’ultimo fino ad arrivare alla piazza. Di cosa si mangiasse al “Re dei mari” non ho memoria alcuna. Ero molto piccolo e non avevo ancora sviluppato quella curiosità, anche intellettuale, che ho adesso nei confronti del cibo. Immagino servissero piatti di pesce molto classici: spaghetti con le vongole, sauté di cozze, frittura mista di calamari e gamberi, spigola al cartoccio o alla griglia.
La possibilità che servissero pesce crudo la escluderei (per quanto un simile uso in Italia sia storicamente radicato, più di quanto si creda): la cucina giapponese, che avrebbe poi vinto la resistenza nei confronti del pesce crudo nel gusto di molti italiani, ancora era una realtà di nicchia (ecco un’altra domanda alla quale internet non sembra in grado di rispondere: quando ha aperto il primo ristorante giapponese a Roma?). Quanto mi piacerebbe oggi poter sfogliare il menu del “Re dei mari” e cercare di ricostruire, attraverso quella lista, cosa ordinavano mio padre e mia madre, per me e per loro.
Mio padre è sempre stato una persona di gusti estremamente semplici e non mi ha mai seguito nelle esplorazioni gastronomiche che poi ho condotto quando sono stato più grande (una volta sola riuscii a portarlo in un ristorante cinese e l’esperienza non lo entusiasmò). Mia madre sicuramente non avrà mai ordinato le cozze, perché le ha sempre detestate (quando fui grande abbastanza mi spiegò che il motivo di quella repulsione era dato dall’aspetto del mollusco che a lei ricordava l’organo genitale femminile. Ancora oggi trovo sbalorditivo questo paragone e soprattutto che qualcuno possa rinunciare a un alimento per una ragione di questo tipo. Non cioè per il sapore, l’odore o la consistenza, ma per la forma).
Corro il rischio di apparire ozioso e confesso che spesso mi chiedo che fine abbiano fatto le persone che lavoravano al Re dei mari di cui io non ricordo neanche un tratto somatico. Staranno lavorando in qualche altro locale? Saranno in pensione? O saranno morti? E le decorazioni che mi facevano sognare, le reti, le conchiglie, chissà in quale magazzino staranno facendo la polvere. O più probabilmente saranno state buttate, incenerite, disperse nel nulla. Quanto al pappagallo che mi accoglieva all’entrata, essendo questa una famiglia di uccelli particolarmente longeva, è possibile che sia ancora vivo e gracchiante, chissà dove.
*Federico Platania è nato a Roma nel 1971 ha pubblicato la raccolta di racconti “Buon lavoro. Dodici storie a tempo indeterminato” (Fernandel, 2006) e i romanzi “Il primo sangue” (ivi, 2008), “Bambini esclusi” (ivi, 2012) e “Il Dio che fa la mia vendetta” (Gallucci, 2013). Dedica da anni a Samuel Beckett energie che quasi hanno resuscitato l’irlandese in un sito www.samuelbeckett.it. Un suo intervento è stato compreso nell’antologia “La formazione dello scrittore. La scelta. I dubbi. Gli incontri. Il percorso di chi scrive libri oggi” (Laurana, 2015).