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Anna Frank, Bruno Giordano e il minority report della lazialità

Anna Frank, Bruno Giordano e il minority report della lazialità.

Essere laziali non è stato mai facile. Chi scrive ha dovuto rinunciare a dirlo o a manifestarlo in pubblica piazza anni fa causa alcuni diverbi di cui è più onorevole non conservare memoria. Se la piazza è Roma dirsi laziali – lo diciamo per i fuori Urbe – vuol dire spesso rinunciare alla tranquillità ed entrare in un ghetto (non uso a caso questo termine, non come accade spesso per quell’effetto simpatico che ci fa usare verbi di visione con i non vedenti etc.).

Il calcio, una delle cose più meravigliose che esistano, per un curioso contrappasso crea da noi in Italia – popolo notoriamente (ma è meglio dire generalmente) poco incline al coraggio – delle formidabili accese sfide di presa di coscienza, di velleità politica ma che dico di fede universalista e di inderogabilità di qualunque premessa di superiorità. A Roma, e scusate se passo alla più oggettiva statistica, il rapporto – potete chiederlo a qualunque store di magliette di squadre di calcio non monomarca – è 1 a 5 (1 è il laziale), il che, se siete laziali, vi porrà in una condizione di subalternità indeclinabile.

Per questa ragione io credo che la curva biancoceleste o la sua tifoseria sia sempre alla ricerca di un colpo di teatro che possa farla risalire nei numeri. Deve urlare più forte, scrivere lo striscione più grande e più arguto e via così. Ah, preciso, e non può bastare giocare meglio. Bisogna vincere fuori e dentro al campo. Distinguersi. Essere i più cattivi in tribuna. I più facinorosi al bar. Insomma è tutta una strada in salita.

Intanto – se ci pensate – è difficile dire perché uno è laziale, romanista o di qualunque altra squadra. Si può provare ma ci si deve arrendere a dati non oggettivi e poco o per nulla fideistici (anche se questi sono quelli che finiscono per andare per la maggiore).

Chi scrive ama il calcio e poi è laziale. Non il contrario. E per molti in questa distanza – altra protezione dal ghetto della minorità – ecco annidarsi una delle caratteristiche tipiche della lazialità. Il laziale è, si dice, uno che si lamenta anche se la squadra vince 5 a 0. Incontentabile? Irriducibile? No, io penso, solo vittima del suo minority report cittadino: tifare la squadra che non porta il nome della città (forse Torino ci insegna un paradosso diverso, forse).

Non per sminuirla perché grave oltre ogni ragionevole difesa la questione delle figurine di Anna Frank si iscrive a pieno titolo in questo orizzonte di stupore collettivo: sempre maggiore, sempre più clamoroso e riprovevole e ripetuto come i vari “buuuu” rivolti al giocatore avversario di colore. Sanzionati, squalificati ma inutilmente. Se tutte o quasi le curve sono fasciste quella della Lazio lo è di più – e non voglio ripetere l’assunto – deve esserlo più fascista delle altre.

Alessandro Piperno, scrittore che combina spesso e sa dosare ironia e serietà, di fede laziale ma con difficile identikit causa il cognome ha scritto:

“Non so se esista una qualche ricetta magica contro l’antisemitismo. A giudicare dall’ultimo paio di millenni, direi francamente di no. E tuttavia si può dire che esistono circostanze e situazioni specifiche che costituiscono un ottimo habitat per l’odio contro gli ebrei, o nei confronti di qualsiasi altra minoranza. Tali circostanze e situazioni hanno di certo a che fare con la retorica, con le buone intenzioni, con i gesti dimostrativi, con il sentimentalismo mieloso, in poche parole, con il grottesco”.

Il grottesco, già, il grottesco a cui dedica una lunga sequela di punti che precede questa conclusione è l’elemento più imbarazzante della vicenda perché autopunitivo. Ma vogliamo pensare che esista un calcio migliore. Quello giocato, certo, e quello fuoricampo.

In questi giorni è uscito un libro dedicato al grande bomber, soprattutto laziale, Bruno Giordano. Lo ha scritto Giancarlo Governi che rende onore a uno degli attaccanti più interessanti e controversi passati da essere una bandiera a lasciare la squadra amata. Il titolo: “Bruno Giordano. Una vita sulle montagne russe” (Fazi) che bene sta alla lazialità.

Sospesa tra le retrocessioni, la guazza della serie B, il calcioscommesse la minorità di cui si diceva. Ultima ma non ultimo l’essere etichettata come squadra del fascio. E, come se questo potesse cancellare tutto (ma non può), gli scudetti o le coppe. Ma torniamo a Bruno, autentica anima popolare trasteverina.

Scrive nell’introduzione del libro Edoardo Albinati:

“A chiunque piaccia il calcio l’essenzialità di Bruno Giordano dovrebbe essere cara. Mai un gesto eccessivo o fuori misura, un virtuosismo fine a se stesso. Mai plateale. Il bardo Valentino Zeichen diceva che i suoi movimenti e il suo modo di mettere il corpo prima di ricevere il pallone e al momento di calciarlo avrebbero dovuto essere proposti nelle scuole come modelli basici, poi si correggeva aggiungendo che quelle cose non si insegnano”.

Zeichen ha anche dedicato dei versi a Bruno:

Un remoto Lazio-Juventus; tre a zero
esplode l’anonimo urlo di trionfo,
sì; ma chi ha recapitato al presente
il nome di quel gladiatore: Bruno Giordano
che si distinse durante i giochi
per l’incoronazione dei titoli di Augusto;
con quale punteggio sconfisse le fiere zebrate
se l’ovazione riservatagli dalla folla
superò i cento decibel, sopravanzando
quella resa di consueto all’imperatore?

Ma chi era Giordano?

Giordano è stato una bandiera biancoceleste e non per questo (e io direi molto diversamente da un Nesta e solo un poco similmente a un Beppe Signori) il suo passaggio ad altra maglia non è stato semplice. Eppure ne è uscito indenne o non macchiato. Direi lo stesso dai tanti casi che qui non ripeterò della sua vita extrasportiva. “Le montagne russe della mia vita privata” le chiama. E le richiama:

“Certo che il gioco del calcio per me è stato come una corsa sulle montagne russe, non una carriera calma e tranquilla come quella di Gianni Rivera”.

Dentro alla ricostruzione di Governi, non casuale scrittore di biografie, c’è tanta lazialità: la morte di Re Cecconi, eroe della Lazio dello scudetto, quella di Paparelli un tifoso sparato da un razzo curva-curva. Il ritorno di Chinaglia con i dollari e l’utopia di una società gestita da un suo portabandiera. Tante tante cose. Non ultima la pagina del calcioscommesse la galera che impreziosisce la sua carriera ad altalena.

“Esco da via della Lungara, scendo quel famoso scalino. Purtroppo l’ho salito anche io” dice Giordano venendo via da Regina Coeli, da quel gradino che, dice il proverbio, salire e scendere dà autenticità romana.

Ecco, macchie parte, io credo che la Lazio non debba dimenticare queste storie. La sua tifoseria dovrebbe tornare a ricordare queste piccole cadute per avere la forza di essere una squadra (e una tifoseria) che rispetta le altre minorità più che cercare di evidenziarle, irriderle, stigmatizzarle. In fondo per essere grandi bisogna essere semplici, veri e combattivi come la vita di Bruno Giordano ci insegna.




Di roberto carvelli

Founder e direttore di "Perdersi a Roma" collabora con Il Messaggero, il Venerdì e Nuova Ecologia. Ha pubblicato libri di prose, poesie e narrativa di viaggio tra cui "Letti" (Voland), "AmoRomaPerché" (Electa-Mondadori), "La gioia del vagare senza meta" (Ediciclo), "Fùcino" (Il Sirente), "Il mondo nuovo" (Mimesis), "Andare per Saline" (Il Mulino) e "I segni sull'acqua" (D editore).