Filippo La Porta è nato a Roma nel 1952. Saggista e critico letterario ha dedicato alla città in cui è nato “Roma è una bugia” (Laterza, 2014). Tra i suoi libri va ricordato il più volte ristampato “La nuova narrativa italiana: travestimenti e stili di fine secolo” (Bollati Boringhieri, 1995). In questa intervista racconta la bugia romana.
Hai scritto con grande lucidità che (a Roma) “Tutto ciò che qui giunge finisce, per non smettere di finire”. Ti sfido a dirmi una o due cose che invece sogni che finiscano a Roma.
Una certa presunta “saggezza”, diciamo da pronuncia nasale andreottiana (che trovo oscena), il celebre “a pensare male ci si coglie…”. Mentre a pensare male si diventa stupidi. Poi la maleducazione, l’arroganza esibita di molti dipendenti pubblici agli sportelli.
Sempre nel primo capitolo – il più rivelativo a mio modo di vedere – citi Flaiano e scrivi “Per Ennio Flaiano, poi vivere a Roma significa perdere la vita. Aveva ragione, però, vivere è soprattutto perdersi. Ogni giorno, in questa città spossante, colorita, sfasciata, io perdo la vita, come tutti. Ma in questo perderla sento anche di capirla, di afferrarne una verità”. Due film – “La Dolce Vita” e “La Grande Bellezza” – lavorano su questo concetto di perdita legata alla vita romana. Che ne pensi?
Marcello Rubini (Mastroianni) e Jep Gambardella (Servillo) si rassegnano a perdere la vita, che si disfa nelle loro mani – con un misto di malinconia, di piacere estenuato, di leggerezza appena ombrata – che altro potrebbero fare? C’è qualcuno che per caso non la perde, la vita?
Mi puoi raccontare quali sono le tue passeggiate del “perdersi” a Roma?
A volte vado in quartieri sconosciuti e li giro un po’, che so il Portuense, o Talenti, o Casal Bertone, altre volte mi “perdo” in quartieri molto familiari, come i Parioli.
Da una parte lo stupore (l’Anvedi) dall’altra il minimalismo (il chissene (frega)). È Roma che sta in mezzo o sono i romani che si mettono in mezzo a questa doppia gratuità ingombrante del Sistema Monumentale e delle Rovine non solo archeologiche che ne scaturiscono?
In questo caso i romani si mettono in mezzo, tra i monumenti e le rovine, non distinguendo più tra gli uni e le altre. Qui tutto si ammanta di monumentalità (magari un po’ retorica), notava Ludovico Quaroni, di oro e di porpora, anche ciò che è volgare, banale… E d’altra parte il grandioso diventa turistico, un po’ finto, taroccato…
Nel capitolo “Autobiografia come cartografia” scrivi “Fin da quando ero bambino, ho sempre pensato che le vie e le piazze di Roma volessero comunicarmi qualcosa: le strade sono le nostre stesse viscere”. Quale corpo ti immagini che abbia Roma e quali sono per te i suoi organi principali?
Le interiora della sua cucina, appunto le viscere, che vengono esposte in piena luce. Nel palcoscenico illuminato a giorno di questa città niente è nascosto, non esiste l’interiorità, non ci sono segreti. E il fatto che mostra compiaciuta le proprie viscere si nota anche nel gusto dei romani di raccontare i dettagli splatter delle storie, facendo appunto teatro (vedi il personaggio del “coatto di Verdone).
Scrivi che non scegliamo la città natale. Non ti chiedo dove saresti voluto nascere ma quale o quali città avresti voluto che nascessero a Roma. Anche solo in parte.
E’ bello che la città dove abitiamo non la scegliamo, e anzi la subiamo, subiamo la sua luce, il suo clima, la sua atmosfera (il genius loci)… questo ci abitua a una saggia passività. E tra l’altro possiamo modificarla pochissimo. E’ vero, nell’antica Roma il Circo Massimo era sotto il livello del Tevere, poi si sono accumulati i detriti, è cambiata l’altimetria…però la luce colorata, verosimilmente, è rimasta quella. Mica decidiamo tutto.
La bugia di Roma a cui intitoli la tua disamina. Quella di piazza del Popolo (che tutto è tranne che pop). Secondo te, Roma rappresenta anche una bugia italiana? Storicamente, intendo, e penso all’essere una doppia capitale. O più in generale, per altro verso, nell’essere sempre meno una città “anche” industriale. Insomma, il rischio di essere Caput mundi ma non più Caput Italiae?
Roma appartiene ai turisti, certo, ma anche ai romani, agli italiani, ai rom e ai barboni, ai preti e ai trans notturni, ai parlamentari e ai tassinari…I turisti poi si lasciano ingannare con poco: ho visto un gruppo di giapponesi che di fronte al Palazzo delle Esposizioni, in via Nazionale, chiedevano alla guida se fosse di Bernini… mentre ogni americano è convinto che il Vittoriano sia un tipico monumento dell’età dei Cesari. Vorrei insistere sulla bugia su certe sue implicazioni: noi romani siamo tendenzialmente bugiardi, poco affidabili, iperbolici nel racconto, ritardatari agli appuntamenti, accidiosi, etc. Ma per poter essere liberamente, creativamente, tutte queste cose occorre che almeno la nostra classe politica – gli amministratori della città, il Comune, gli assessori – non dica bugie, e che anzi sia sincera, affidabile, puntuale, sobria, efficiente.