Speak easy tabarchino ovvero le lingue sommerse (e/o da salvare). Dal primo numero (“Stiamo scomparendo. Viaggio nell’Italia in minoranza”) della CTRL books.
“Questo nostro primo libro-reportage è stato reso possibile anche grazie al sostegno di tanti singoli lettori (542), che hanno aderito alla campagna di crowdfunding sulla piattaforma Produzioni dal Basso, lanciata nel dicembre 2017. Ad ognuno va la nostra profonda gratitudine”. Finisce così e inizia da qui questo bel prodotto della CTRL books.
Ecco un viaggio tra dialetti che rischiano il fantasma: Arbëreshë, Walser, Tabarchino, Occitano e Grico affidati alle penne, tra gli altri, di Valerio Millefoglie e Franco Arminio.
Molti non sanno che in tabarchino non esiste il corrispettivo della parola pioggia. Ma molti non sanno neppure che cos’è il tabarchino. Lo scopriamo in questo estratto dal reportage (“Questi posti davanti al mare”, citazione fossatiana per estensione) di Mirco Roncoroni di cui vi offriamo una breve anticipazione. Le foto sono di Emanuela Colombo, autrice di un bel reportage centrale).
Il canale. Lo chiamano così il tratto di mare che separa l’isola di Sant’Antioco da quella di San Pietro, nell’arcipelago del Sulcis. Il traghetto, come tutti i giorni, fa spola tra i due centri dove il tabarchino è la lingua madre, la Sardegna è “terraferma” e il sardo una lingua quasi incomprensibile.
Calasetta e l’isola di Sant’Antioco sbiadiscono all’orizzonte di poppa, Carloforte e l’isola di San Pietro sono ancora un’ombra a prua. Le due isole furono l’approdo dei coloni genovesi provenienti da Tabarka, in Tunisia. Successe poco meno di trecento anni fa. “Tabarchini” li chiamavano.
Erano migranti in fuga e in cerca di una terra da chiamare casa, avevano vissuto nel regno dei Bey tunisini per duecento anni, impiegati dalla Genova caput mundi alla pesca del corallo. Laggiù avevano sempre parlato il genovese, assorbirono la cultura locale, impararono a cucinare il couscous che in dialetto diventava cascà, e via così si forgiava una nuova lingua che non ha mai smesso di evolversi: il tabarchino.
La bonaccia del canale si apre al traghetto lento e rumoroso. Sul ponte esterno una ragazza siede e fuma dell’erba, l’odore riesce a vincere la pazzia delle correnti d’aria e a farsi cogliere distintamente. A nord-est spuntano i contorni delle fabbriche di Portovesme, le ciminiere bianche e rosse scompaiono nella foschia, dietro di loro si alza una schiera di pale eoliche che si può solo immaginare, insieme fanno il fantasma di un passato industriale e la sua redenzione green.
Poco più in là, al polo nord del canale, l’isola Piana, l’isolotto dove sorgeva lo stabilimento per la lavorazione del tonno, che da tempi immemori migra in queste acque tra aprile e maggio seguendo sempre la stessa rotta. Fino a un passato ancora recente è stato una risorsa inestimabile per le genti locali, qualcosa come il bufalo per i nativi americani o la foca per gli Inuit. Anche del tonno non si butta
via niente, du tunnu tüttu l’è bun dicono qui.
L’isola Piana oggi è privata, ospita un residence esclusivo ed è stata ribattezzata “isola per pochi amici”. Il tonno invece non ha ancora cambiato le sue abitudini, ogni anno torna in zona attratto dall’abbondanza di pesce. In quel periodo i polpi gli fanno largo. Vivono circa dodici mesi, maggio è sinonimo di vecchiaia, così prendono a spopolare il canale, raggiungono le zone scogliere esterne, depongono le uova, muoiono.
Quando viene la stagione, i nuovi nati rientrano nello stretto dal basso fondale, che in prossimità del porto di Carloforte è un prato subacqueo di alghe scure depilato qua e là in macchie azzurrissime.
Qui il paese si apre alla vista, u pàize lo chiamano in dialetto. È l’unico centro abitato dell’isola di San Pietro. Le palme in fila sul lungomare, una schiera di case color pastello sale piano sulla collina in uno scenario da borgo ligure in Sardegna. La statua di Carlo Emanuele III di Savoia troneggia nella piazza dello sbarco.
Fu il re che concesse l’isola di San Pietro ai tabarchini in fuga dalle persecuzioni tunisine. Successe nel 1738. Un secondo gruppo approdò anni dopo sulla punta dell’isola di Sant’Antioco, e lì fondò Calasetta, nel 1770.
Avvicinandosi alla statua ci si accorge che manca del braccio destro, una mutilazione piuttosto evidente. Si dice che furono gli stessi isolani a spezzarlo, incalzati dall’arrivo dei francesi repubblicani di Napoleone. Vedendoli sopraggiungere scavarono una buca per sotterrare il loro tributo al re, nel tentativo di preservarlo dalla furia antimonarchica.
Sembra però che un braccio continuasse a spuntare dalla sabbia, e qualcuno decise di risolvere la cosa con un colpo di mazza.