Il poeta e sceneggiatore di Santarcangelo di Romagna è stato “il cantore delle stagioni e della Terra”. Ora Bompiani ne raccoglie l’opera omnia.
Tonino Guerra, più che grande poeta e sceneggiatore (anche internazionale per Anghelopoulos, Tarkovskij, Wenders), è stato forse l’autore di un’auspicata riappacificazione con il Pianeta. Lo è stato in un’epoca in cui il crinale sembrava pendere per la modernizzazione e l’industrializzazione più sfrenate. E in questo senso potremmo definirlo l’ultimo dei poeti contadini, o meglio il cantore delle stagioni e della terra (così come lo ricordiamo autore dello script del protoecologista Deserto rosso).
Ora i due volumi in cui Bompiani ha raccolto la sua opera, L’infanzia del mondo. Opere (1946-2012), restituiscono centralità a questa figura più amata che riconosciuta, contribuendo a consacrarla. Lo fanno con la generosa e acuta curatela di Luca Cesari, che introduce con ricchezza.
Guerra, che pure è stato internato e reduce del campo di concentramento di Troisdorf, parte dal mondo contadino perduto (le prime poesie le scrive da prigioniero in Germania), scopre la schizofrenia e la spersonalizzazione della modernità industrializzata e alienata e dell’inurbamento selvaggio, torna alla Terra ritrovando l’uno. Così in vita, nella linea Romagna-Roma-Romagna, in lingua sul fronte sempre vivo lingua e dialetto, in letteratura nel passaggio romanzo psicologico-racconto in versi del mondo contadino.
Ecco perché il titolo-citazione dei due volumi raccolti suona come un ritorno all’unicità primitiva che ricompatta tutto. Guerra ha raccontato questo dissidio con un candore e un’ingenuità nativi e l’ha perseguito anche in vita trasferendosi dalla Roma dei suoi scambi con Fellini e Antonioni alla Pennabilli del suo Appennino per poi tornare a morire il 21 marzo 2012 nella natia Santarcangelo di Romagna, vi era nato il 16 marzo 1920, nel cui dialetto ha scritto i suoi versi.
Dopo le prime due prove neorealistiche Guerra riconosce ne L’equilibrio la linea città versus campagna come il fronte della sua personale poetica. Il testo è del 1967 e inizia così: “Vengo da un’esperienza tot ciò vuol dire da quell’insieme di cose che danno fastidio, tipo grattacieli, industriali col sigaro, linoleum, plastica, televisione, bang-bang, marijuana”.
Negli anni l’ho intervistato più volte. In una di queste occasioni (nel libro Amarsi a Roma, Ponte Sisto) sull’abbandono della città aveva detto: “Ero stato da poco operato al cervello a Mosca e avevo una certa preoccupazione sulla vita ma, allo stesso tempo e proprio per quello, avevo voglia di rivedere la campagna, di ritirarmi nel silenzio, di godere della pioggia e delle nevicate. Roma meritava di più che i miei occhi vedessero con lentezza la magnificenza dei suoi monumenti”. Poi raccontando del suo buen retiro.
“Ormai la mia vita è qui, in questo piccolo paese dove i miei genitori venivano a vendere frutta e verdura da Sant’Arcangelo dove ero nato”. Ma chi pensasse che il suo ritorno alla campagna sia stato un arretramento e un imbozzolarsi, sbaglia. La sua produzione è stata sempre contraddistinta da un forte impatto civile come nei 13 Avvisi scritti nel 1981: “Carissimi contadini e possidenti, vi prego di non abbattere i grandi ciliegi che tutte le primavere sorridono alla gente che passa sulla via Emilia”. O questo: “Non ama il proprio paese chi lascia la casa nuova color cemento e la dipinge di verde”. Insomma, il mondo merita una cura e già quella è ecologia