Categorie
obituaries

Federico Fellini

Come avrebbe passato il suo centesimo compleanno Fellini se fosse stato ancora tra noi.

“Buongiorno Maestro!”. L’anziano regista Federico Fellini, cento anni oggi, esce dalla sua casa in via Margutta 110. È mattino presto ma c’è già chi, là fuori, lo incrocia e lo saluta, gli fa gli auguri – per giorni non si è parlato d’altro sui giornali e in tv, del suo compleanno. Sornione, la voce flautata, ringrazia il passante e va verso la macchina con l’autista che gli apre lo sportello e lo fa salire per una nuova giornata di disargine e lavoro ben combinati per non stancarsi – “con la pazienza s’empara la scienza” aveva fatto dire al porporato nel film “Roma” e ne ha fatto tesoro di quella massima. Sembra un sogno già sognato da lui, scritto e disegnato. Uno di quelli ora riordinati e ripubblicati in una nuova edizione filologicamente accurata riordinando fogli regalati ad amici di cui non ricorda nulla (”Il libro dei sogni”, Rizzoli, 80 €). In questo sogno FF è ancora tra noi a festeggiare il compleanno e noi lo accompagniamo con alcuni amici in un suo viaggio romano. E non si capisce se siano loro a sognare Fellini o lui a sognare loro.

Roma, via Margutta, la casa di sempre, pensa Fellini salendo sulla vettura. In un attimo ricorda però la prima casa in via Albalonga 13, nel quartiere Appio-Latino, quella in cui arriva ragazzo con tutta la famiglia per studiare giurisprudenza e finire poi a fare il caricaturista sul “Marc’Aurelio” o le prime scritture all’EIAR in via delle Botteghe Oscure. La casa con la famiglia, quella con il fratello Riccardo, attore anche fortunato e poi ambizioso regista che aveva cercato di utilizzare la sua fama. Qualche anno fa era stato anche realizzato un documentario (“L’altro Fellini”) ma aveva preferito non vederlo. Poi l’appartamento in via Nicotera, l’attuale Residence Prati, quella in via Lutezia 11, con Giulietta dalla zia di lei, e la prima casa veramente loro, in via Archimede 141/a, nei Parioli dei fulgidi – per il quartiere e per lui – anni Cinquanta-Sessanta.
Ora Federico è nel suo studio di Corso d’Italia 35/d. Ne ha avuti altri di studi e prova a ricordarli. Quello in via Sistina, certo, ma cosa dire del vero studio permanente, a Cinecittà.

“Federico, praticamente, viveva a Cinecittà – racconta, come in un sogno nel sogno, ora Giuliano Geleng, tanti film con FF da bozzettista -. Lì aveva lo studio, aveva persino una cuoca, la massaggiatrice, l’autista”. Quanti ricordi stanno visitando Fellini in questa giornata di bilanci di un secolo. Sembra un amarcord, come il neologismo creato da lui con Tonino Guerra (io mi ricordo, in romagnolo, ma, in verità, inventato come una sciarada da bar: “Amaro Cora!”), suo o di chi lo ha conosciuto, quasi ora fosse visitato da persone che lo hanno conosciuto.

“Fellini reinventa la memoria – racconta, infatti, ora Gianfranco Angelucci, tanti anni al suo fianco e autore del recente e luminoso “Glossario felliniano” (Avagliano, 20 €) -. Come l’illusionista che estrae il coniglio dal cilindro, lui ricrea la sua Rimini nei teatri di posa di Cinecittà. Anche il mare per essere vero dev’essere finto: teli di plastica agitati dai macchinisti sotto barche e mosconi sono il mare della sua città; una sagoma di legno con le finestrine illuminate appoggiata sulla piscina dello stabilimento, è il transatlantico che scivola davanti a noi grazie a un controcarrello, un movimento indotto; il roco muggito della sirena e una sfilacciatura di nebbia artificiale, materializzano dal nulla il passaggio del Rex; un’emozione irresistibile, un’icona indistruttibile.

‘L’unico vero realista è il visionario’”. Realtà e visione: ora che ci pensa non sa se sia stato più reale quando ha sognato o quando ha vissuto. E se ha vissuto un sogno o sognato una vita. Ad esempio, pensa a Rimini. Tutto sommato pochi anni passati lì ma quanta immaginazione. Anni fa aveva provato a raccontare quei pochi anni tra la casa della nonna a Gambettola e Rimini per il suo amico Renzo Renzi (“Il mio paese” in “La mia Rimini”, Guaraldi, 15 €): una commedia dell’arte di maschere e vicende parossistiche e grottesche, governate dalla nonna come una domatrice tra governanti tettone, la prima lunare aurora delle mammelle sognate e disegnate per anni, zingari e pastori.

Ora è tempo di pranzo e FF si fa portare dall’autista al mare vero, quello di Ostia, un luogo che, come ha scritto lui stesso “ripropone Rimini in una maniera teatrale, scenografica e, pertanto, innocua.

Insomma è una ricostruzione scenografica del paese della memoria, nella quale puoi penetrare, come dire, da turista, senza restare invischiato”. Si ricorda della prima volta che ha visto la sua città negli occhi di Ostia. Con Ruggero Maccari. Poi ricorda anche di quando ci andava con l’amico Tonino Guerra, con la sua macchina verde, quando ancora guidava, a vedere due palazzi “in cui i balconi sembravano due labbroni” come diceva lo sceneggiatore, il Villino B di Adalberto Libera. Quanto cinema aveva girato a Ostia, si dice: il mare di quasi tutti i suoi film era tra Focene, Passoscuro, Fregene – la sua Fregene, quella della sua dolce vita estiva – e Ostia. Anche la famosa scena della nana che sale sull’albero a recuperare zio Teo era da quelle parti, in via Capo Due Rami. Ma poi quante invenzioni di scenografia nel recinto della fantasia di Cinecittà e chiede all’autista di farsi riportare ai teatri di posa su via Tuscolana, quasi nella certezza che solo lì tornerà ad essere se stesso, lì in mezzo a fondali posticci la sua vera essenza, protagonista della sua storia inventata da lui stesso, vivo nel sogno.
In macchina ripensa alle donne. Quanto le ha amate ma soprattutto come – il “come” a molti sfugge.


“La sua – racconta sempre Gianfranco Angelucci – era una visione maschile, non maschilista; e chi non lo ammette, mente. Ma nel 1965, quando nessuno ancora parlava di femminismo, Fellini in conferenza stampa per “Giulietta degli spiriti” aveva dichiarato: ‘Nessun uomo sarà libero finché non sarà libera anche l’ultima donna’”.

Ora nel sogno è Alvaro Vitali a parlare: “Per lui ho avuto un amore sviscerato, dall’inizio, da quando sono andato a trovarlo al Teatro 5 – con lui avevo fatto ‘Satyricon’ e ‘I clown’ – e mi sono trovato davanti tutti i disegni dei suoi personaggi a cui aveva sostituito la faccia di un attore. Ognuno rappresentava un animale. Io ero un vespone e il mio nome, infatti, era Nasi. Mi chiamava in qualsiasi momento perché gli piacevano le mie battute e il mio accento romano. Mi considerava un grande caratterista”.

Si sta facendo ora di cena e il Maestro chiede all’autista “Portami da ‘Colline Emiliane’ in via degli Avignonesi”. Gli piace andare lì perché ritrova l’atmosfera di casa e gli affiorano i ricordi. Lo ricorda anche il proprietario, Massimo: “Fellini voleva essere chiamato Maestro da un certo punto ma era garbato, mai gli ho sentito alzare la voce. Veniva per lo più con amici e quasi sempre con la Masina. Per lei aveva infinite attenzioni e riguardi. Lui rigorosamente prendeva le tagliatelle alla bolognese e lei i cappelletti in brodo”. Nel locale ancora i tovaglioli disegnati da lui e nel libro delle firme la traccia di un pranzo con Italo Calvino e signora. “Fellini e lo scrittore parlavano pochissimo – ricorda il proprietario di Colline Emiliane – . Erano le loro mogli a parlare fitto fitto”.

Quanto aveva amato mangiare, pensa ora FF. Tutte le trattorie romane, il pesce a Ostia, la Sangiovesa a Santarcangelo. Ora ricordava un episodio, addirittura, a Parigi. Chi c’era con lui? Ah sì, Alvaro Vitali. E infatti lo ricorda attraverso la sua voce. “Eravamo in un bistrot – dice il Nasi di “Amarcord” con il suo bellissimo accento romano, una figura da avanspettacolo puro pensa Fellini – e i camerieri non venivano a prendere le comande. Forse avevano capito che eravamo italiani e ci disprezzavano per questo. A quei tempi non correva buon sangue tra francesi e italiani. Niente, passava il tempo e noi abbandonati lì al tavolo. Poi, era già trascorso un bel po’, arrivano due coppie francesi e il cameriere corre da loro a servirli e noi ancora lì senza ordine. Dopo due ore finalmente, vengono da noi e noi ordiniamo due minestre. Aspettiamo ancora e quando arriva il mio piatto lo prendo e lo rovescio sul tavolo. Federico mi guarda, dice ‘bravo!’ e fa la stessa cosa”.

Fellini ora sta ridendo al ricordo di Alvaro ma guarda l’orologio e vede che è quasi notte e, come nel ricordo di Giuliano Geleng – “Passava da casa a via Margutta ma solo per salutare Giulietta per cenare con lei ma poi, spesso, andava in giro ramingo, anche nella notte” – riparte per un vagabondaggio nel buio freddo di questa sera del 20 gennaio 2020.


Sarebbe tempo di dormire e chiudere gli occhi su questo centesimo compleanno, pensa, mentre qualche fantasma lo visita ancora. Chi sa se, come la nobile del film “Roma”, Fellini si ripete tra sé e sé “Me dispiace de chiude l’occhi in una città che non è la mia. Roma mia era n’antra, la gente era più bona, rispettosa”.

Mentre si addormenta, o smette di sognare, gli viene il sospetto che qualcuno si starà interrogando su di lui, “credendo di conoscerlo, sebbene in pochi abbiano familiarità con i suoi film”, e Angelucci sembra volerlo anticipare nelle conclusioni: “Solo studiandolo, indagando il suo magistero, disinquineremo noi stessi e l’aria che respiriamo. Il cinema di Fellini è stato un rifugio e un baluardo per il nostro Paese, e lo sarà ancora se ci impegneremo seriamente a preservarlo, diffonderlo e approfondirlo come un raro deposito di salute”. Finalmente ora FF sente che può riposare e sognare, davvero.




Di roberto carvelli

Founder e direttore di "Perdersi a Roma" collabora con Il Messaggero, il Venerdì e Nuova Ecologia. Ha pubblicato libri di prose, poesie e narrativa di viaggio tra cui "Letti" (Voland), "AmoRomaPerché" (Electa-Mondadori), "La gioia del vagare senza meta" (Ediciclo), "Fùcino" (Il Sirente), "Il mondo nuovo" (Mimesis), "Andare per Saline" (Il Mulino) e "I segni sull'acqua" (D editore).