Zingari o turisti? Come conoscere le città? Davanti a un espositore di cartoline di Roma. Che ci faccio? E che ci fareste voi? Voi – come me – romani. Che ci dovremmo fare, noi? Perché comprarne una? A chi spedirla e cosa scriverci? Ma anche chi, turista, passasse da Roma, sceglierebbe ancora questa forma di saluto con annessa immagine oleografica?
Ho pensato tutto questo rivedendo “To Rome with love” di Woody Allen. Un film-cartolina – dichiaratamente tale già dal titolo – del grande regista (già comico) americano. Una commedia degli equivoci scritta diretta e fotografata come una cartolina, appunto. Da un lato tutte le immagini più pittoresche dell’Urbe, i luoghi comuni più triti e ritriti (noi che cantiamo sotto la doccia, il pizzardone di piazza Venezia, la complessa sequenza delle indicazioni viarie, ecc).
Dall’altra – nello spazio bianco, libero, proprio come in una cartolina, da cotanta occhieggiante rappresentazione – alcune riflessioni neanche troppo originali sul successo mediatico che espone e dispone delle persone comuni per poi rilanciarle nel nulla da cui sono partite, sulla normalità del tradimento, sull’anti-freudismo. Vedere Roma e rappresentarla da esterni, da turisti per quanto complici o emuli della bellezza, ha un suo rischio “banalità” e immagino che tale sia il ragionamento degli impressori di cartoline che segmentano un percorso senza ostacoli tra la monumentalità: dal Colosseo, a San Pietro, al Pantheon, al caleidoscopio. Ma, per tornare al film, lascia un po’ perplessi questo Gran Tour alleniano tra le città europee (Barcellona, Parigi e Roma). Nel caso di noi romani, poi, quel che ci tocca in sorte non sono i fascinosa rive gauche e l’assenzio, il bistrot gravido di talenti artistici bensì il “tutti a letto con tutti” in barba a recenti statistiche che dicono in pericolosa flessione amatoria il machismo italiano (mentre il lato seduttivo della femminilità italica tiene lo scettro).
Ho pensato queste cose sul viaggio e sull’attraversamento della città anche leggendo il bellissimo libro di Carola Susani “Eravamo bambini abbastanza” (minimum fax). Seppure in una forma definitivamente inversa. Il romanzo si potrebbe definire un trionfo della sindrome di Stoccolma. C’è, infatti, un gruppo picaro di bambini variamente rapiti o racimolati, tenuti in pugno dall’autorevolezza del loro aguzzino, il Raptor, in cammino per l’Italia. Il racconto parte da Roma e a Roma ritorna per concludere che spesso le città possono essere attraversate diversamente. Senza cartoline. Senza confini. Se non quello di sbarcare il lunario: rubando e questuando, adoperando ogni mezzo per sopravvivere.
Fatti i debiti distinguo dall’orrore, è affascinante questo modo di viaggiare senza fermarsi. Senza fermare i luoghi in un’immagine che parli per frasi fatte, per amenità da gadget. E allora ecco, in una scrittura che non fa concessioni alla retorica, la Roma in attesa sospesa della morte di Giovanni Paolo II, una immagine del libro che parla, eccome. E non per dire lo scontato dolore della fede ma quello scaltro aggirarsi tra i fedeli in sincera commozione per sgraffignare qualcosa, approfittare di qualcos’altro e via verso una nuova avventura. Un modo di andare zingaresco che dovremmo riscoprire almeno nel senso dell’avventura imprevista. Ecco allora che piazza San Pietro non sarà un fotogramma da cartolina ma una storia. E andare, senza riconoscersi nelle immagini di tutti e per tutti, un vero viaggio esperienziale che può anche non essere spedito ma fissato con forza nei ricordi che non perdi. Che ti si fissano vividi addosso e che un giorno dirai a qualcuno senza apparire uno dei tanti ripetitori di frasi (e immagini) fatte.