Ripubblico un testo che avevo già pubblicato anni fa su “la Repubblica”. Racconta di Città Giardino dove ho vissuto per molti anni. Parte da Ponte Nomentano.
Sono a Ponte Nomentano. Non c’è gente, sono solo. Nella pineta stretta tra Nomentana nuova e Nomentana vecchia c’è solo qualche cane, e relativi padroni. Fino a qualche anno fa passavano ancora le macchine sul vecchio ponte, ora è isola pedonale, è stato restaurato, è tutto bello pulito. Duemilacinquecento anni fa, prima che fosse costruito, c’era già il guado qui, e certo c’era più movimento di adesso. In età imperiale c’erano circa centocinquanta tra ville e aziende agricole. Poi il deserto: pascoli, ruderi, briganti, fino agli inizi del ‘900. Ma il ponte è rimasto sempre. Me lo ricordo nero e smangiato anni fa, e forse per millenni è stato così. Ora è tutto pulito, perfetto. Hanno messo dei ferri molto eleganti per non far passare le macchine, una scaletta a chiocciola molto elegante sale su al piano di sopra. Sì perché è un ponte a forma di casa, col suo tettino a capanna, un po’ casa e un po’ castello perché è anche turrito, merlato. Un ponte-casa-castello, forse è per questo che è stato così tanto ritratto nei secoli da pittori disegnatori fotografi.
Dalla “finestra” guardo l’Aniene scorrere livido sotto e il ponte “nuovo” vicino, quello costruito negli anni ’20 per collegare la Città Giardino in costruzione, poi crollato dopo pochi anni, e ricostruito in cemento armato. Questo qui il cemento armato non sa neanche cos’è, che gliene importa a lui del cemento armato.
Le anatre nuotano sul fiume, lasciandosi trasportare dalla corrente. Devono stare attente a non andare a sbattere contro le isole di rifiuti formatesi tra i tronchi caduti. Dall’altra parte, verso Pietralata, mi sembra di vedere degli uccelli neri sui rami. No, sono sacchetti di plastica o altri rifiuti impigliati.
Mi lascio il ponte alle spalle, avanzo sulla Nomentana vecchia. Alla mia destra c’era la locanda dove, all’inizio del “Piacere” di D’Annunzio, Elena Muti, accompagnata da Andrea Sperelli, beve un bicchier d’acqua. Adesso al suo posto c’è una pizzeria. Sulla sinistra c’è una fontanella di quelle classiche romane che manda un getto fortissimo. Sta sopra uno strano pozzo marmoreo antico, forse un abbeveratoio. Un signore si sta lavando la macchina, sfruttando il getto potente. Poco più avanti a destra c’è una via; la targa recita: Via di Monte Sacro. Sopra la mia testa frondeggia la collinetta che dovrebbe essere il Sacer Mons su cui la plebe si ritirò nella famosa secessione, e dove Menenio Agrippa pronunciò il famoso apologo. Almeno così pensarono i costruttori della Città Giardino, per questo lasciarono la zona a verde. Oggi c’è chi avanza l’ipotesi che il vero Monte Sacro sia la collina più ampia dall’altra parte dell’Aniene, dove sono Viale Carnaro e Viale Adriatico, perché i plebei erano troppi per entrarci tutti qui sopra.
Salgo sulla collinetta, tra alti e maestosi pini, lecci, cipressi. In cima ci sono dei resti basamentali attribuiti al Tempio di Giove Terrifico (per questo si chiamava Sacer Mons). Scendendo mi accorgo che stanno recintando il parco, la cancellata è identica nello stile ai ferri del ponte. Camminando compaiono i primi villini, quelli originari della garden-city costruita nei primi anni venti sulla destra e sulla sinistra dell’Aniene (Città Giardino Aniene era il suo nome). Erano circa 700, monofamiliari, piano soggiorno, piano letto, torretta, terrazzi, seminterrato per lavatoi cantine ecc, circondati ognuno da un giardino di un migliaio di metri che si affacciava su viuzze serpeggianti (dai nomi di monti isole e mari italiani), su scalinate anche erte e su amene piazzette. Molti sono stati ampliati, altri abbattuti per costruire palazzine. Le palazzine mantengono spesso giardini molto piccoli.
I villini sono veramente belli, stupisce la varietà dei disegni, pur mantenendo la stessa cubatura. E’ come un gioco di costruzioni, con tutte le combinazioni: bow window, torrette, bifore, archi, fregi, bugne, decorazioni, greche ecc.
Camminando su Viale Gottardo arrivo alle bancarelle del mercato. Tra i banchi dei “vignaroli” mi metto a chiacchierare con una donna anziana che sta comprando delle mele. Lei è qui dall’inizio, mi racconta di quando erano immersi nella campagna, non c’era nemmeno l’autobus per arrivare a Roma, bisognava andare a piedi fino a Sant’Agnese. La sera uscivano in vestaglia e pantofole per portare a spasso i cani, ogni villino aveva un cane perché si sentivano isolati. Un’altra signora lì vicino che sta infilando dei fagiolini in una busta di plastica ribatte: “Sì, e adesso ci hanno tolto il 60 che ci portava fino a Trastevere, adesso ci ferma a Piazza Venezia!”.
Attraverso la Nomentana e vado verso il “centro”, cioè la piazza della “città”, costeggiando “case popolari” che adesso sarebbero considerate di super-lusso (ce n’è una che ha sul tetto una specie di tempio dorico!). Al silenzio delle stradine subentra il caos del traffico. La piazza è invasa dalle macchine. Sono le nove di mattina ma qui c’è traffico sempre. Una parte della piazza è parcheggio. Guardo la chiesa e gli edifici circostanti medievaleggianti e bizzarri. Mi colpisce una scritta grande su una facciata: “Una casa dolce e decente dove il fanciullo riceve il bacio della madre e le carezze del padre è la prima lezione per diventare buoni cittadini. G. Mazzini”. Mi tengo lontano dal caos, dal branco di veicoli che converge stringendosi verso il ponte Tazio; passo sotto un arco, salgo delle scalette e mi trovo in un dedalo di viuzze. Qui sono molti i villini, non tutti sono in buono stato, alcuni sembrano abbandonati.
I miei nonni hanno vissuto in questo quartiere. Non li ho conosciuti perché sono morti prima che io nascessi. Avevano comprato un villino appena costruito, nei primi anni ‘20. Io ho vissuto qui negli anni ’70 ai tempi del liceo, poi ci sono tornato dopo vent’anni e m’ha stupito come tutto era rimasto uguale. Se guardo anche le foto del villino al tempo dei miei nonni, mi sembra uguale. La gente che abita in questo quartiere è fatta per la maggior parte di anziani. Camminando per le vie mi stupisco di come sono tenuti i giardini. Anche in quelli tenuti bene c’è sempre un’aria di antico, il nuovo non è mai staccato, avulso, ma si compone e si annulla nell’antico. Quando c’è qualche villino ristrutturato perché, caso raro, è venuta una coppia di giovani, mi stupisco nel vedere come si riconfermi quella che è la caratteristica del quartiere: l’umiltà, o meglio il rispetto, la fraternità, che è senile, con la natura, col tempo. A volte mi incanto a vedere certi giardini che a prima vista possono sembrare abbandonati, o trascurati perché troppo rigogliosi, informi, ma guardando meglio ci si accorge di come in essi la natura sia accolta, compresa, di come tra l’uomo – spesso anziane signore che si aggirano silenziose tra le piante – e la natura ci sia un dialogo continuo che è sapienza, letizia. Vicino casa mia c’è un giardino, anzi una selva meravigliosa piena di gatti e di piante di ogni tipo, sia rarissime che comunissime. Ci abita una signora rimasta sola. E’ incredibile la grazia, la sapienza, la genialità estetica, la conoscenza anche tecnica che ha delle piante, e della vita. Si vede soprattutto che l’avere ogni anno sempre meno forze per gestire il giardino non la preoccupa, il suo rapporto con la vita è sempre più mentale. Come dice il Tao Tê Ching: “Il vero taglialegna non taglia”. Un giorno le ho detto: “Il suo giardino è il più bello di tutti”. Mi ha risposto:”Prima me lo godevo, specialmente d’estate, ma adesso con queste zanzare-tigre è un inferno! Com’è che negli altri quartieri vengono a fare le disinfestazioni e qui mai?”.
La cover “Città Giardino Aniene nel 1923, Via Majella e Piazza Bolivar (AU)” è tratta da “Città Giardino Aniene” di Alessandro Galassi e Biancamaria Rizzo (Minerva Edizioni).