Una passeggiata in quella che era e, si spera, sarà ancora Villa Massimo così come l’abbiamo conosciuta.
La pineta di Villa Massimo è chiusa, sembra che vogliano trasformarla in un parcheggio bambini a pagamento. Gli abitanti del quartiere stanno giustamente insorgendo. Ho vissuto davanti a questo giardino meraviglioso di grandi pini tra primi ’60 e primi ’70, al tempo di elementari e medie. Sul quartiere Nomentano Italia scrissi anche questo pezzo alcuni anni fa…
Nomentano-Italia: già il nome ci dice la screziatura, le più facciate o la nessuna facciata di questo quartiere. Stretto tra l’”alto” della Nomentana ricca di ville patrizie e tombe romane (e sotterranee catacombe cristiane), e il “basso” della ferrovia e della tangenziale. E’ screziato, a gradini: aristocratico verso la Nomentana, poi via via alto, medio, piccolo borghese. Chiuso poi, a sud, su tre enormi falansteri in fila di anime: Il Policlinico, L’Università, il Verano.
Per me poi che ci ho passato l’infanzia – le elementari e le medie – negli anni ’60, è difficile mantenere una certa oggettività, se ci passo velocemente in macchina o in motorino mi avvolge un groviglio di sensazioni inestricabili, intermittenze proustiane, vorrei fermarmi e stare lì delle ore, senza pensare o ricordare, ma semplicemente respirando quell’aria, lasciare che quel luogo mi avvolga, posare una mano su di lui, su un muro, su una fontanella.
Sono a piazza Bologna, il centro. L’edificio postale di Ridolfi è emblematico: è senza facciata. Come se si volesse sottrarre, ritrarre e al tempo stesso appiattirsi, orizzontalizzarsi. Penso che da bambino non l’avevo quasi notato, ovvero l’avevo notato ma non mi aveva colpito, mi sembrava come qualcosa che stava lì, come una cosa che non si nota. Mi viene da pensare, davanti a questo edificio – centro di un quartiere nuovo fascista, costruito per la media e piccola borghesia impiegatizia – alla ritirata sull’Aventino, al “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo” di Montale. Pochi isolati dietro c’è un edificio invece che da bambino l’ho notato anche troppo, al punto che me lo sogno ancora di notte, ma non la sua facciata greve fascista (parlo della scuola Fratelli Bandiera in piazza Ruggero di Sicilia) ma i suoi meandri interni in cui mi perdevo, gli ampi corridoi le volte le scale come in una torre di babele angosciosa. Lì i maestri ancora picchiavano e marciavamo come balilla (1963) e il risorgimento mi sembra anche di averlo un po’ vissuto tanto era celebrato e esaltato, e sono quasi grato a questa scuola di questo, come sono grato quando vedo qualcosa di antico che miracolosamente non è ancora stato spazzato via, o restaurato, e sta lì a testimoniare qualcosa che non riesco a capire che cosa sia, come se la nostra mente si aprisse, o la nostra vita si allungasse. Mi viene in mente la Casina delle civette ridotta a rudere, alla fine degli anni settanta quando fu aperta al pubblico la villa Torlonia. Fu per me un’esperienza incancellabile, potevo stare ore dietro la rete arrugginita di ferro a contemplare la decadenza di tanto artificio, dopo tanto sovrapporsi di eclettismo (da Jappelli a Gennari a Fasolo, dal 1840 al 1920) eppure così incredibilmente unitaria, partorita da una mente unica e bambina, e a contemplare le fioriture del tempo che è infinitamente più eclettico di ogni eclettismo.
Guardo la piazza con i giardinetti al centro, circondati da un vortice di macchine, affollati di gente che scende e sale dalla metropolitana. Fra qualche anno ci sarà ancora più gente, con l’apertura della nuova linea B1 che porterà a Montesacro, attraversando i quartieri Trieste e Africano. Ma c’è un progetto anche di realizzazione imminente, nel 2004, di pedonalizzare la piazza, cioè l’area tra le poste e i giardinetti, diminuendo l’inquinamento e creando più verde e spazi per bambini e anziani in una zona che ne è assolutamente priva: le macchine passeranno dall’altra parte della piazza e sul retro delle poste, in via Monaci.
Torno sulla piazza, mi tengo sulla destra di Viale XXI Aprile. Dopo qualche negozio c’è una libreria: è piccola, stretta stretta ma fitta di libri, è l’unica del quartiere (ce n’è un’altra in zona ma è specializzata in libri sullo sport). “Eppure la gente qui – mi dice la proprietaria – ha interesse per i libri”. Anche lei è stupita, come me, di come pochi qui siano gli spazi culturali (“Non c’è neanche un negozio di musica!”). “E’ una quartiere chiuso come ambiente, cerca di limitare i nuovi venuti, vorrebbero togliere la metro, vorrebbero togliere le fermate degli autobus…”. Penso alla stazione Tiburtina, che è proprio qui, alle spalle di noi, e diventerà la più grande e affollata di Roma. Altro che fermate degli autobus!
Continuo a camminare lungo Viale XXI Aprile, spartiacque tra l’area a villini e palazzine e l’area più intensiva, con palazzoni anche di dieci e più piani. A sinistra il muro con i pini e i cipressi della Villa Massimo, a destra l’enorme edificio che ospita il Comando generale della Guardia di Finanza. Più oltre un altro edificio immenso. Se lo guardate non vi colpisce, anche qui l’esterno non è importante, non c’è facciata. C’è un supermercato GS attaccato con tutta la sua enorme maschera colorata, e questo non vi scandalizza, perché vi sembra un palazzone qualsiasi. E’ la Casa convenzionata per l’impresa Federici, sempre degli anni ’30, come tutta la zona e come le poste di Ridolfi. E’ un capolavoro di un altro grande: Mario De Renzi. Qui lo spettacolo è tutto dentro. E questo quartiere è forse così, paradossalmente, tutto dentro.
Non entrate negli ingressi che vedete sulla destra, perdereste l’effetto fondamentale, che è la visione dal basso. Andate avanti oltre il supermercato e girate in via Enrico Stevenson. Ci sono i chioschi di un mercatino, sulla destra, al n. 24, è lì che dovete entrare. La verticalità della visione è sottolineata dalle grandi fughe vetrate delle scale, come torri, grattacieli svettanti di una città spaziale e fiabesca che avete visto forse in disegni e sogni (come quelli di Sant’Elia) ma mai nella realtà, e tanto meno a Roma (capitai qui la prima volta di notte, ragazzo, a una festa di un’amica, e le rampe illuminate – di una luce fioca e sinistra nell’abbandono generale – mi fecero un’impressione incredibile). Mille finestre come mille occhi tra le torri vi guardano. Sull’asfalto del secondo cortile mi colpisce una scritta con vernice bianca: ALE TI AMO, fatta per essere vista dall’alto, da tutti quegli occhi infiniti. Saliteci su una di quelle rampe. Nei pianerottoli absidati vetrati la vertigine si capovolge: sembra di essere in uno di quei bombardieri trasparenti dell’aeropittura futurista “a picco sulla città”.
Mi viene in mente che in questo quartiere ha vissuto per tanti anni uno scrittore importante, anche se a mio avviso non abbastanza riconosciuto: Carlo Bordini. Voglio ricordare almeno il suo Manuale di autodistruzione (Fazi, 1998) geniale operetta satirico-filosofica, e le poesie di Polvere (Empiria, 1999). Ci ha vissuto da quando era bambino negli anni ’40 fino a pochi anni fa, mi racconta. La sua casa a via Squarcialupo era l’ultima, intorno c’erano tutti prati. “E’ un quartiere tranquillo in cui la gente ha l’aria di dover difendere qualcosa, e questo non è bello, però ci sono delle ragazze che hanno dei begli occhi”. Gli chiedo se si riferisce alle fuorisede universitarie, magari con occhi scuri meridionali, profondi. Mi risponde che sì, “ma sono occhi di ragazze anche del luogo, è qualcosa che è nel luogo. Ci sono delle case bellissime, è un’architettura che è chiamata l’eclettico romano, era un posto dove viveva la gente ricca, che però ha una nobiltà, che non ha Parioli. Non c’è la volgarità della ricchezza dopo la guerra”. Gli rispondo che sono perfettamente d’accordo, quelle vie verso la Nomentana, tra piazza Galeno e Villa Mirafiori, sono tra le più belle della Roma moderna. “Ma sai che lì c’è la casa di Pirandello, che ci hanno fatto un museo?”. Non lo sapevo e me ne vergogno (andatela a vedere perché è un posto bellissimo, sta in via Bosio 13, aperto dal martedì al venerdì dalle 9 alle 13). “E’ un quartiere piuttosto smorto però è pieno di gente sensibile. C’è una contraddizione tra un quartiere con pochi servizi culturali (biblioteche, librerie) e invece c’è poi come una sensibilità solitaria di quelli che nascono lì. Una solitudine che poi diventa sensibilità”.
Gli architetti, penso, dagli eclettici ai razionalisti più moderni, hanno rispettato un’interiorità che è nel luogo, e forse anche nella gente. I silenzi di questo quartiere, percepibili soprattutto nell’area verso la Nomentana, delle ville, c’erano forse anche prima quando qui c’erano solo campi, vigne e orti. C’è una sacralità, un silenzio, che è delle catacombe sotto villa Torlonia e villa Massimo, nella vicina Sant’Agnese, che è nelle tombe del Verano. Penso al silenzio dell’arte, anche, alla casa di Pirandello, alla casa di Ettore Ximenes a piazza Galeno, tempio del liberty romano, con la sua Ara Artium, altare delle arti. A Carlo Bordini che mi dice: “E poi ci siamo vissuti noi, no?”.