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Agata

Vi offriamo un estratto, che presenta la protagonista Agata, dal nuovo romanzo di Giacomo Cacciatore, Piccola italiana (Fernandel).

Il libro racconta il tentativo di resistenza all’omologazione da parte di una bambina cresciuta in orfanotrofio durante il ventennio fascista tra suore occhiute e malevole e dottori non proprio memori delle loro promesse. Giacomo Cacciatore è nato in Calabria nel 1967, ma vive da sempre a Palermo. Ha pubblicato sei romanzi tra cui Figlio di Vetro (Einaudi, 2007), La differenza (Meridiano Zero, 2014), Se tornasse Natale (Baldini&Castoldi, 2015) e Uno sbirro non lo salva nessuno (Dario Flaccovio, 2017).

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Agata stava contemplando le piccole pedate fangose che ricoprivano la porta della latrina e sognava di aggiungerne altre, calci, quando l’uscio si spalancò. La sagoma di una suora, di cui non scorse il volto, si profilò in uno spicchio di luce smorta.

Spinse all’interno, rapida, un’altra figura: più bassa, smagrita, orlata di merletti. Appresso, la religiosa fece rotolare quelle che sembravano due bottiglie avvolte in strofinacci. «Eccovi le borse dell’acqua calda», disse. «Servitevene. E non dite più: Ho freddo ho freddo».

La porta si richiuse con la stessa rapidità con cui si era aperta. L’anta sbatté sul telaio con frastuono di temporale. Tornò l’oscurità. Chi era stato spinto dentro, tentò qualche passo. Fallì nell’affrontare il buio. Cadde.

Ad Agata parve di sentire un guaito. Si appollaiò di nuovo sulla panca, in posizione di difesa: ginocchia piegate, dita ad artiglio sul legno e polpacci contro le natiche. La stessa postura dalla quale aveva assistito alla sconfitta del dottore, annichilito e messo in fuga in preda a un prurito alle corna.

Con un niente, affidandosi semplicemente alla propria intuizione. Quell’uomo era talmente ben curato – foderato di buon profumo, tutta una manicure, tutta una brillantina – che sarebbe stato da sciocchi non immaginarlo ammogliato a una bella signora.

Ma risultava così rigido, tanto innamorato delle proprie scienze, che ci voleva davvero poco a pensarlo sempre barricato tra i suoi libri. Mentre la moglie si guardava altrove. Mentre bellimbusti rozzi cantavano, per strada: «A noi la morte non ci fa paura: noi la morte non ci fa paura: NO! ci si fidanza e ci si fa l’amor danza e ci si fa l’amor».

Ma io non penso a tutto questo, mentre combatto con chi mi importuna e vuole entrarmi in testa e fregarmi, rimuginò Agata. Ci rifletto dopo, a cose fatte.

Nacqui spontanea. Che colpa ne ho? La bambina si scollò da quei pensieri vischiosi. Si ricordò che non era più sola, nella latrina. Il che le dava nausea. Batticuore. Era di nuovo pronta a difendersi. Purché la lasciassero in sacrosanta pace. Sentì un altro guaito, un lamento, un annaspare verso di sé.

«Che roba sei?» disse.
«Sono una bimba. Come te», le rispose una voce.
Agata si irrigidì. Si aspettava l’ennesimo scarafaggio. O un topo. Le monache non portavano altro, lì dentro. Sebbene il dottore lo avesse negato.

«Davvero?» chiese, diffidente. Poi curiosa: «Vediamo?»
La voce si impennò nel buio. Agata ne sentì la confusione: «Buon Dio… È tutto scuro, qui. Temo di cadere nuovamente…»