Al Cimitero degli Inglesi con D’Annunzio. Una delle pagine più famose de “Il piacere”, tra le urne degli Acattolici.
Il cimitero era solitario. Alcuni giardinieri davano acqua alle piante, lungo la muraglia, facendo oscillare l’inaffiatoio con un movimento continuo ed eguale, in silenzio. I cipressi funebri s’inalzavano diritti ed immobili nell’aria: soltanto le loro cime, fatte d’oro dal sole, avevano un leggero tremito. Tra i fusti rigidi e verdastri, come di pietra tiburtina, sorgevano le tombe bianche, le lapidi quadrate, le colonne spezzate, le urne, le arche. Dalla cupa mole dei cipressi scendevano un’ombra misteriosa e una pace religiosa e quasi una dolcezza umana, come dal duro sasso scende un’acqua limpida e benefica.
Quella regolarità costante delle forme arboree e quel candor modesto del marmo sepolcrale davano all’anima un senso di riposo grave e soave. Ma in mezzo ai tronchi allineati come le canne sonore d’un organo e in mezzo alle lapidi, gli oleandri ondeggiavano con grazia, tutti invermigliati di fresche ciocche fiorite; i rosai si sfogliavano ad ogni fiato di vento, spargendo su l’erba la loro neve odorante; gli eucalipti inchinavano le pallide capellature che or sì or no parevano argentee; i salici versavano su le croci e su le corone il loro pianto molle; i cacti qua e là mostravano i magnifici grappoli bianchi simili a sciami dormienti di farfalle o a manipoli di rare piume. E il silenzio era interrotto a quando a quando dal grido di qualche uccello disperso.
Andrea disse, indicando il sommo dell’altura:
– Il sepolcro del poeta è lassù, in vicinanza di quella rovina, a sinistra, sotto l’ultimo torrione.
Maria si sciolse da lui, per salire su pei sentieri angusti, tra le siepi basse di mirto. Ella andava innanzi, e l’amante la seguiva. Ella aveva il passo un poco stanco; si soffermava ad ogni tratto; ad ogni tratto si volgeva indietro per sorridere all’amante. Era vestita di nero; portava un velo nero sul viso, che le giungeva fino al labbro superiore; e il suo sorriso tenue tremolava sotto l’orlo nero, si ombrava come d’un’ombra di lutto. Il suo mento ovale era più bianco e più puro delle rose ch’ella portava in mano.
Accadde che, mentre ella si volgeva, una rosa si sfogliò. Andrea si chinò a raccogliere le foglie sul sentiero, innanzi a’ piedi di lei. Ella lo guardava. Egli posò i ginocchi a terra, dicendo:
– Adorata!
Un ricordo sorse a lei nello spirito, evidente come una visione.
– Ti ricordi – ella disse – quella mattina, a Schifanoja, quando io ti gettai un pugno di foglie, dalla penultima terrazza? Tu t’inginocchiasti sul gradino, mentre io discendevo… Quei giorni, non so, mi paiono tanto vicini e tanto lontani! Mi pare d’averli vissuti ieri, d’averli vissuti un secolo fa. Ma forse li ho sognati?
Giunsero, tra le siepi basse di mirto, fino all’ultimo torrione a sinistra dov’è il sepolcro del poeta e del Trelawny. Il gelsomino, che s’arrampica per l’antica rovina, era fiorito; ma delle viole non rimaneva che la folta verdura. Le cime dei cipressi giungevano alla linea dello sguardo e tremolavano illuminate più vivamente dall’estremo rossor del sole che tramontava dietro la nera croce del Monte Testaccio. Una nuvola violacea, orlata d’oro ardente, navigava in alto verso l’Aventino.
“Qui sono due amici, le cui vite furono legate. Che anche la loro memoria viva insieme, ora ch’essi giacciono sotto la tomba; e che l’ossa loro non sieno divise, poiché i loro due cuori nella vita facevano un cuor solo: for their two hearts in life were single hearted!”
Maria ripetè l’ultimo verso. Poi disse ad Andrea, mossa da un pensier delicato:
– Scioglimi il velo.
E gli si appressò arrovesciando un poco il capo perché egli le sciogliesse il nodo su la nuca. Le dita di lui le toccavano i capelli, i meravigliosi capelli che, quando erano sparsi, parevano vivere come una foresta, di una vita profonda e dolce; all’ombra de’ quali egli aveva tante volte assaporata la voluttà de’ suoi inganni e tante volte evocata un’imagine perfida. Ella disse:
– Grazie.
(…)
Si levava il vento della sera; e il cielo, dietro la collina, era tutto d’un color diffuso d’oro in mezzo a cui la nuvola discioglievasi come consunta da un rogo. I cipressi in ordine, su quel campo di luce, erano più grandiosi e più mistici, tutti penetrati di raggi e vibranti nei culmini acuti. La statua di Psiche in cima al viale medio aveva assunto un pallore di carne. Gli oleandri sorgevano in fondo come mobili cupole di porpora. Su la piramide di Cestio saliva la luna crescente, per un ciel glauco e profondo come l’acqua d’un golfo in quiete.
Essi discesero, lungo il viale medio, fino al cancello. I giardinieri ancóra davan acqua alle piante, sotto la muraglia, facendo oscillare l’inaffiatoio con un movimento continuo ed eguale, in silenzio. Due altri uomini, tenendo per i lembi una coltre mortuaria di velluto e d’argento, la sbattevano forte; e la polvere metteva un luccichio spandendosi. Giungeva dall’Aventino un suono di campane.
Maria si strinse al braccio dell’amante, non reggendo più all’angoscia, sentendosi ad ogni passo mancare il suolo, credendo di lasciare su la via tutto il suo sangue. E, appena fu nella carrozza, ruppe in lacrime disperate, singhiozzando su la spalla dell’amante:
– Io muoio.
Ma ella non moriva. E sarebbe stato meglio, per lei, s’ella fosse morta.
Gabriele D’Annunzio (Pescara, 12 marzo 1863 – Gardone Riviera, 1º marzo 1938), è stato uno scrittore, poeta, drammaturgo. Noto per le sue gesta “militari” e la vita “decadente” ne “Il piacere” – da cui è tratto il brano – eterna la Roma del “ben vivere” tra agi e dissipatezza amorosa.