Voglio porre una questione spaziale o, meglio, di consumeristica (talvolta dà un sottile piacere decontestualizzare parole – un po’ brutte, diciamolo! – che sono talmente invalse nell’uso da costringerci a pensare che possano avere un significato al di fuori del loro campo semantico specialistico): sono rimasti pochi cinema con la galleria.
Le sale sono oggi un garage mono-piano in cui trovano posto tutte le nostre illusioni visive. È successo perché, nell’adeguamento a multisala, le cubature sono state sacrificate, forzate all’ottimizzazione (e vai con la seconda parola!). E allora via le platee, quel ricettacolo di pomiciamenti e fumoir. Al diavolo la visione dall’alto. A quel paese il lancio di oggetti ai malcapitati sottostanti. Roma non ha fatto difetto. Salvo poche sale. Quella che qui celebriamo è il Farnese. Un luogo che a molti evocherà rappresentazioni al limite del decoro. Molti mi raccontano, infatti, di proiezioni scadute nel teatro dove, con un paradosso contagioso, il fulcro dell’attenzione finisce per spostarsi specularmente dallo schermo al pubblico. Il Farnese è, inoltre, oggi, il luogo di una seconda visione attenta che merita il bollino dell’ “in via di estinzione”. Un buon motivo per parlarne qui. Per farne tema di una passeggiata, sia detto, un po’ statica.
Finita la visione, poi, sarà possibile divagare in quel ricettacolo – invero più giornaliero che pomeridiano – di penuria e accatto che è il Monte dei Pegni e vie limitrofe. Luoghi a cui Aurelio Picca dedica un po’ della sua attenzione nel suo “Addio” (Bompiani): un libro che oscilla tra giallo, romanzo storico e memorabilia. Vi tengono scena, oltre alle avventure de Il Tenebro, i simboli di una generazione, la sua cultura, le sue rischiose o allegre iniziazioni. Dietro la bella copertina di Luigi Ghirri a soffietto ecco aprirsi, per capitoli brevi, le canzoni di una stagione, le moto di una generazione e sì anche un po’ di quella Roma: “In estate arrivava anche Ghigo, un romano pelato sul cranio con i capelli lunghi e filanti dietro la nuca. Aveva settant’anni e indossava un paio di scarpe Superga e un giubbino blu. Al polso portava una patacca di orologio d’oro. Tra via delle Zoccolette comprava gioielli e polizze dai poveracci che non potevano riscattarle al Monte di Pietà che è lì a due passi”. Eccoci dunque nel dietro le quinte cravattaro del Farnese. Un mondo che, in parte – molto in parte –, non esiste più. O forse, persiste, per quel poco che dura quel vivere all’avventura del poco.
Per tornare al cinema e alla sua dietrologia fatta di boutade che mi sono state raccontate – la pernacchia come stilema, la sveglia fatta suonare in piena proiezione, certi siparietti più da avanspettacolo che da film – è bello ancora oggi andare al Farnese. Per la buona selezione di film e per il contorno di vie e viuzze sontuose e rimediaticce che lo intersecano. Tra movida e passeggiata romantica, vie di fuga e di nascondiglio.
Bello è dentro scegliere la visione alta di una delle poche platee rimaste dove, certo, non sarà più possibile fumare ma magari sì avere una visione più abbracciata, affettuosa. Se siamo quello che vediamo – e forse anche come lo vediamo – la platea ci ricorda quel sano dall’alto in basso che spesso lo star system ci impedisce. Per spingerci, forse, all’identificazione coi divi riducendoci, talvolta, agli antieroi innaturali della rappresentazione in cui finiamo per identificarci. Malamente.
Da fare
Un panino alla Pizzicheria Ruggeri – piazza Campo de’ Fiori, 1- tel. 06 6880 1091
Un bicchiere di vino all’enoteca L’Angolo Divino – Via dei Balestrari, 12-14 – tel. 06 686 4413
Un gelato da Grom – via dei Giubbonari, 52.