Pubblichiamo un estratto da “12 apostati. 12 critici dell’ideologia italiana” (Enrico Damiani Editore), curato da Filippo La Porta (editore e curatore congiuntamente ringraziamo). E'”Scrittori da cabaret” un’invettiva di Camilla Baresani (e ringraziamo anche lei) sulla tuttologia “autoriale” degli scrittori nostrani. Una delle voci apertamente dissonanti di questa antologia – curata nella grafica e attenta, come gli altri titoli dell’editore, al senso di un progetto d’intervento sulla contemporaneità – in cui compaiono Belardinelli, Marchesini, Febbraro e altri.
Scrittori da cabaret
di Camilla Baresani
Nel novembre del 2008, la regina Elisabetta visitò
la London School of Economics, esclusivo istituto
universitario dove i padri alto-borghesi di mezzo
mondo vorrebbero veder studiare i propri figli, sognandone
il futuro accesso a professioni nevralgiche
e a carriere internazionali molto ben retribuite.
Nel discorso tenuto alla lse, scuola che vanta ben
trentasette capi di stato, innumerevoli diplomatici e
celebrities dell’alta finanza internazionale, nonché
diciassette premi Nobel, la regina chiese come mai
nessun economista fosse riuscito a prevedere il credit
crunch, ossia la stretta creditizia delle banche, tema
che ai tempi era al centro del dibattito economico e
politico, e che negli anni successivi ha continuato a
esserlo, in termini sempre più catastrofici.
L’avesse chiesto agli scrittori italiani, le avrebbero
risposto che l’avevano previsto, che se fossero stati
ascoltati non si sarebbe arrivati alla crisi, e che avevano
la ricetta per uscirne. Lo scrittore italiano è un fine economista, questo si
sa. In materia economica interviene sempre e ha idee
ben precise. Firma appelli, si sbilancia scrivendo articoli
indignati, interviene a getto continuo sui social,
chiede dimissioni, propone soluzioni, e se può
si candida in Parlamento, perché è convinto di poter
incidere nella realtà, migliorandola.
La responsabilità degli adulti è personale, lo sappiamo,
però va detto che agli scrittori si richiede di essere
tuttologi, c’è una sorta di irresistibile pressione
dall’alto perché espongano le proprie analisi e impartiscano
moniti e ricette. Chi tiene le redini dei
giornali e della politica li reputa ideali per riempire
l’iperfoliazione a corto di pubblicità: fanno scena,
di solito hanno una certa verve espositiva, usano
citazioni colte (che ai lettori danno idea di leggere
qualcosa di alto e necessario), e poiché non sono
rappresentati da nessun sindacato interno, anzi ce
l’hanno contro, vengono pagati con cifre irrisorie,
veri cottimisti della scrittura last minute, in saldo.
Sono ormai lontani i fasti contrattuali degli Umberto
Eco, dei Piero Citati, dei Claudio Magris, delle Dacia
Maraini. Poiché ogni scrittore contemporaneo sa
di far parte di un mondo terminale e di rivolgersi a
un decrescente pubblico di lettori, si lascia tentare
dalla rilevanza espressa a forza di opinioni doppiamente
semigratuite, nel senso che non essendo quasi
pagate non richiedono nemmeno una specifica competenza.
Costano poco e valgono poco ma riempiono,
proprio come un panino con l’hamburger.
Spesso mi prende un senso di smarrimento, una
vertigine di inadeguatezza per la grande quantità di
questioni su cui sono chiamata a esprimere un’opinione
scritta, e vorrei sempre dire “ma che ne so, la
mia visione è parziale, non conosco tutti i dati e non
ho tempo di studiarli” (l’opinione va sempre scritta
o espressa a tambur battente), ma poi mi consolo
pensando che i politici e gli amministratori, quelli
che devono decidere, raramente sono esperti: semplicemente
hanno un approccio dirigenziale, e allora – inesperta per inesperti –
scrivo anche io la mia,
così, tanto per continuare a esistere nel mondo degli
old media.
La coscienza del funzionamento di questo sistema,
però, non ha fatto che aumentare immensamente il
mio scetticismo, al punto che non credo più nella
parola scritta, negli opinionismi, nel dire la propria.
Provo nausea quando leggo gli interventi di certi
miei amici o non amici scrittori, con la loro veemente
certezza in materia politica, sociale ed economica,
a volte addirittura sanitaria, e ogni volta mi dico “ma
che ne sanno?”. Che ne sappiamo? L’unica cosa che
mi interessa non è il contenuto ma la forma, cioè lo
stile, il giro di frase, la scelta dei termini.
Camilla Baresani (il cui ultimo romanzo è “Il sale rosa dell’Himalaya”, Bompiani) scrive sul magazine del “Corriere della Sera”. Il suo sito è:
www.camillabaresani.com