Franco Fortini è il tema del documentario di Lorenzo Pallini di cui a giorni si chiude la campagna di finanziamento su Produzioni dal Basso. Ce lo siamo fatti raccontare dal regista.
Autore: redazione
Via Margutta 51
Un racconto di Cetta Petrollo su via Margutta negli anni Settanta da un numero di qualche tempo fa de l’immaginazione (il 304).
Fondali, prima e dopo
Fondali, prima e dopo. Prima o dopo.
Olšany, Praga
Olšany, Praga. Un estratto da Scusate la polvere. Cimiteri, sospiri e piccoli miracoli (Bottega Errante) di Paolo Patui.
Fa ancora freddo. E dentro al cimitero immenso, enorme, la neve scricchiola sotto i piedi e accarezza le lapidi, le tombe, le guglie alte o basse e comunque infinite per foggia, stile e moda. Un odore di muschio umido penetra fino alle ossa, mentre, fermo in un attimo di assoluta sospensione, mi pare di percepire una sorta di esile sospiro che dalla terra sale fino alle cime degli alberi.
Perché qui a Olšany non sai bene se sei dentro a una foresta abitata o a una cittadella che si è insediata all’interno di una selva multicolore. Questa è roba antica. Il cimitero di Olšany esiste dal Seicento, voluto per ospitare le vittime di una epidemia di peste che morivano vorticosamente e che rapidamente dovevano essere sepolte per sconfiggere l’assalto del contagio.
Nell’Ottocento diventa per definizione il cimitero di Praga, sempre più esteso, variegato, complesso. Oggi Olšany è una matrioska, una scatola cinese, un insieme di cimiteri che sono lì a dirti, se ancora non l’hai capito, che la morte e il desiderio di memoria e il rispetto per ciò che si è vissuto e ciò che si è perduto sono tutti accumunati dalla fine della vita terrena.
Nei dodici cimiteri che compongono la necropoli riposano cattolici e ortodossi, musulmani e atei, soldati dello zar e soldati dell’Armata Rossa che hanno inseguito Napoleone o Hitler, e con loro ci sono i soldati di Napoleone e di Hitler che, inseguiti dagli uomini delle armate russe, sono crollati a terra, nella neve, nel gelo, nella rabbia, nel dolore. Stanno tutti qui. Compresi gli ebrei. Il vecchio e monumentale cimitero ebraico di Praga ha trovato ora nuova sede.
Accanto all’Olšany. Immaginavo che lì volesse portarmi Sawana, a cercare la tomba di Kafka.
E invece lei, che all’ingresso del cimitero si è tolta la gomma dalla bocca, kafkianamente mi indirizza lentamente ma inesorabilmente altrove. Le altre non ci vengono dietro. Hanno freddo, sono stanche. E un po’ deluse da quella teoria infinita di croci di varie forme e da quell’insieme di linee curve così demodé. Se ne vanno al museo. Dicono. Le lascio andare.
Non è la prima volta che lo faccio in una gita scolastica. Anche perché non capisco cosa insegua Sawana. Cerca. Ma non so cosa. Glielo chiedo. Non mi risponde.
Sbuffo. Fa finta di nulla. Mi spazientisco. Mi ignora. Le intimo: «Sawana, ora basta, torniamo indietro!».
La Capria, a voce
Sull’ultimo numero de “l’immaginazione” (il 315) c’è un “A Raffaele La Capria” a cura di Anna Grazia D’Oria che merita la lettura. (Ringraziamo l’editore Manni per la concessione del testo e dell’immagine inclusa nella rivista).
(…)
Gli chiedo come passa le giornate.
“Non esco più, ma ho la terrazza con le piante che curava Ilaria. Ora se ne occupano altri. Le piante indicano la bellezza di esistere, sono vive, sono segno di un mondo parallelo che ci accompagna, con gli uccellini che si posano sui rami e i gabbiani che si fermano sui mattoni e mi guardano, gridano con la voce stridula e volano via. Mi piace osservarli. Vedo dalla terrazza i tetti di Roma, di questa città unica, bella e difficile che è diventata la mia seconda patria e che ora, dall’alto della casa, mi sembra più affascinante perché non sono più travolto nel traffico dei mezzi e nella folla di turisti per le vie”.
Gli chiedo quanto Roma gli ha fatto dimenticare Napoli.
“Napoli rimane al primo posto nel cuore e se penso a qualcosa di bello, se penso alla libertà, penso a Napoli e al suo mare. Mi vedo a Posillipo a nuotare sotto le grotte di Palazzo donn’Anna, mi rivedo giovane con mio fratello e ricordo mio padre e i suoi occhi lucidi quando mi laureai e vedo mia madre che da bambino mi fece già venire il desiderio di scrivere”.
(…)
Gli chiedo ancora di continuare, di dirmi se scrive.
“Sì, è un mio bisogno, ma lo faccio quando ne ho voglia, senza regole, senza progetti, scrivo un diario intimo, i miei pensieri in libertà, quelli che vengono a caso. E sempre arrivano i ricordi di una vita lunga. Qualche volta li leggo a mia figlia Alexandra, che scrive anche lei”.
Quali ricordi ti vengono in mente? “I momenti belli che ho vissuto e sono stati tanti e il mio rapporto sempre forte con Ilaria, prima lettrice e critica impietosa di quello che andavo scrivendo”.
Gli chiedo a quale dei tanti libri che ha pubblicato è più legato e perché.
“Certo a “Ferito a morte”, ma non perché ha vinto lo Strega. È che esprime la forza di vivere, la giovinezza che si interroga e diventa matura. In quelle pagine c’è una filosofia di vita, c’è il sentimento e la riflessione e quella minima storia ha guidato tutte le altre che sono venute fuori, è stata il lievito madre su cui ho costruito quello che penso della vita e che ho cercato di comunicare”.
Questa è una dichiarazione sul laboratorio di scrittura… Sorride anche con gli occhi.
“Non sono mai stato un critico letterario. Altri hanno trovato qualcosa nei miei libri e questo è gratificante per me. Chi legge comunque è padrone assoluto di entrare e uscire dal testo, di condividerlo o rifiutarlo”.
Lo vedo affaticato, ma continua: “Sono insonnolito, non ho mai voglia di cibo, mi piace di più chiudere gli occhi e dormire”.
Guardo quegli occhi che ancora sorridono e sono attivi e gli vedo addosso, nel viso, tutti i suoi novantasette anni e gli chiedo ancora qualcosa da mandare a dire ai lettori de “l’immaginazione”, un messaggio.
“Un consiglio, se vuoi, da chi ha vissuto molto, è di non essere pessimisti, di guardare sempre al lato positivo di ciò che accade, questo aiuta molto ad andare avanti, ad affrontare i problemi che ogni giorno si presentano. E riusciamo ad andare avanti se pensiamo a chi sta peggio di noi”.
Mi congedo, gli dico di continuare a scrivere, che in tanti aspettiamo un nuovo libro.
Risponde subito: “Chi sa, forse il diario diventerà libro a Dio piacendo.”
Dresda dopo l’89
Nati dopo l’89 è la mostra di Matteo Tacconi, giornalista, e Ignacio María Coccia, fotografo (sua la foto del pannello) in programmazione al Goethe di Roma.
La mostra è un viaggio alla ricerca della generazione post-Muro di Berlino, in Italia e Germania. Venti giovani europei nati dopo quella data si raccontano.
Il fotografo Ignacio María Coccia e il giornalista Matteo Tacconi li hanno incontrati in quattro città simbolo. Dresda, nella ex RDT ancora avvolta da una certa mentalità dell’est, Bonn nell’ovest, l’ex capitale della Germania occidentale. E, in Italia, Trieste città di frontiera, multiculturale, e Bari.
La mostra è accompagnata da un audiodocumentario di Tacconi corredato da foto di Coccia. Tutto concorre a ricostruire un mondo in bilico tra antico – magari solo restituito dalle parole dei genitori – e moderno. Nelle frasi dei ragazzi che scelgono le loro location e posano senza schema predefinito (come alla ricerca di un movimento interno dell’immagine) percepiamo la complessità preziosa dell’Europa. Un vero momento di sintesi necessaria in tempi ancora troppo orgogliosi del mosaico continentale.
Dresda spicca per la ricchezza multiforme già interna alla Germania e alla Sassonia. Un Est ricostruito in piccolo. Città che sostituisce una Berlino già multieuropea e si candida a rappresentare in piccolo lì sull’Elba i contrasti europei tra razzismo e disagio, ricchezza culturale e imprenditoriale.
Nati dopo l’89
8 novembre 2019 –
14 febbraio 2020
GOETHE-INSTITUT ROM
Via Savoia, 15
Roma