Bernardo Bertolucci non c’è più ma c’è sempre stato e ci sarà.
Bernardo Bertolucci, a uno che studia cinema, viene dato come un classico. Per uno che ha studiato cinema a cavallo tra Novecento e anni 00 Bernardo Bertolucci poteva essere servito come un classico. Ed era, è e sarà giusto così. Se ci pensi, dopo Antonioni o Bresson (per dire) non è mica facile passare al cinema degli epigoni?
Girare le pagine di qualche manuale senza salti nel vuoto o voli pindarici? Come fai a trattare le grandi produzioni kolossal hollywoodiane senza dover saltare il cinema d’autore pari pari rischiando di dividere la cinematografia per budget più che per anni? A BB – allievo di PPP – tutto questo è riuscito senza dover rinunciare all’inquadratura bidimensionale, quasi dipinta di uno che arriva al cinema per la via della letteratura e della pittura.
In mezzo, infatti, c’è il lavoro del padre Attilio che riesce abilmente a ereditare e sintetizzare: cinema come poesia – magari in un interno (La camera da letto di Attilio e le sue cronache di visione di sala, Ultimo tango a Parigi del figlio), cinema come settima arte (sempre l’infaticabile allora moderno lavoro di considerazione a artistica del nuovo mezzo a pellicola e la grande consapevolezza artistica di Bernardo), cinema come epica (l’uso della struttura-poema del padre e il lavoro di ampia narrazione storica del figlio: Novecento, L’ultimo imperatore, Il piccolo Budda), cinema come eredità della tela (i legami, sempre paterni, con Longhi e con Pier Paolo Pasolini, altro esteta dell’inquadratura pittorica), cinema come politica (ma lo tratteremo di seguito). Da qui si passa e attraverso questo ci si imbullona alla storia e alla cultura ma senza aver cercato questo risultato a priori.
Forse, grazie a tutto questo, permarrà quella ricetta. In molti piani di lavoro, anche negli angoli cottura si potrà ripreparare e riservire il cinema di Bernardo Bertolucci. Ingredienti apparentemente semplici, una preparazione lunghissima. In un ipotetico ricettario di pellicole, infatti, il cinema di Bertolucci può stare come un piatto efficacemente tradizionale e insieme intramontabile.
Quale è stata la sua grandezza è presto detto. La capacità di aver mantenuto sempre la barra diritta di un’ideologia – ecco il cinema come politica. Lo ha fatto nel cinema e nella vita. Senza essere ideologico (I mean “pretestuoso”) Bertolucci ha trattato tutti i temi della sua vita per eternare delle convinzioni, delle ideologie (in questo similmente a Marco Bellocchio): la politica, le lotte di classe, il 68 come epoca d’oro ma non per questo ingiallita (The dreamers – da molti non capito – è questo: un melò non melò di qualcosa che non potrà mai essere cancellato pena, paradossalmente, l’inattualità), il mondo contadino, la libertà sessuale, l’anticonformismo.
E inattuale, in senso studiato, scelto (ancora una volta “ideologico”) e non senile, BB lo è sempre stato e ha preteso di esserlo. Come disse a Niccolò Ammaniti dal cui Io e te libro trae un film (ancora un segno della sua capacità di essere “attuale” a dispetto di tutto) lui si sente una creatura del Novecento. E forse anche questo esserlo stato fino in fondo che gli ha permesso di passare alla storia. Del cinema e del costume. In barba a quelli che credono che l’ideologia sia una cosa vecchia o, al peggio, del secolo passato.
PS Il cinema di BB e Roma. Un rapporto intenso ma non così semplificabile. Alla fine, infatti, rimarranno le riprese quasi selfie del suo documentario sulla disabilità in salsa trasteverina “Scarpette rosse” e la location de L’assedio, in massima parte coincidente con l’appartamento dove Gabriele D’Annunzio scrisse il suo romanzo più famoso, Il piacere. Ovvero vicolo del Bottino 8, a Piazza di Spagna. Il resto è molto mondo che ci ha portato a dimostrazione che le storie le puoi pensare qui ma realizzare dove stanno meglio. E poi sì rimarrà la sua casa in via della Lungara appena dopo la Porta Settimiana.