Il Po viaggia al fianco sempre nel bel lavoro (“Un paese”) – ora riedito in una bella edizione da Einaudi – del grande fotografo Paul Strand e l’inclassificabile genio letterario e visivo di Za(vattini) e dedicato al suo paese nativo, Luzzara.
“Molti si esprimono bene dalle mie parti, un luzzarese spiegava in dialetto qual è l’ora piú bella di Luzzara: sarebbe quando lui d’inverno viene fuori dal caldo – è impiegato in municipio – e il freddo gli dà un piacere che non riesce a spiegare, e corro a passetti brevi per dieci o quindici metri, dice, mentre si accendono i lampioni sopra la sua testa e saluto la gente che incontro con dei ciao secchi, allegri, come quando si scappa sotto i portici per un improvviso acquazzone”.
Questo libro è un oltre-Luzzara e persino un oltre-Po. Un luogo
di senso letterario e rappresentativo che nasce dalla doppia osservazione del
fotografo e dello scrittore-sceneggiatore.
Stare a Po significa anche saperne riconoscere i mulinelli che rischiano di rendere macabro e definitivo il bagno. Stare a Po significa decidere di bagnarsi in giugno quando il fiume fa le sue isole di sabbia. Lasciare la bicicletta nel bosco e tuffarsi. In un’atmosfera piĂą asciutta.
Stare a Po significa anche conoscere la viabilitĂ del fiume,
quella che incrocia l’aereo e il piano dell’acqua ad esempio, fatta di maggiori
passaggi di volatili quando il fiume è grosso e le anatre di legno per il
richiamo sono bianche di ghiaccio di quando è magro.
Il colore caffellatte della piena del fiume che tutto sommerge anche nel paese e poi Luzzara secca con il suono dei sandali di Zavattini che fanno risuonare tutto: il libro è una sinfonia di colori e suoni. Racconta un luogo attraverso una memoria di senso e sensi, anche il gusto (il fiore del trifoglio succhiato in dolcezza).
Ma c’è anche il latte vero, quello che conferisce ai
consorzi del Parmigiano Reggiano e quello delle vitelline vendute da sotto le
mammelle della madre.
I giorni scorrono da calendario e al 30 di ottobre, racconta Za, arriva il primo nebbione e “a Po non si vede piú niente, spunta solo in un modo inaspettato la punta di una di una barca preceduta dallo sciacquio del remo e un cacciatore magari con l’ombrello”.
Questo libro è la preziosa sintesi di due sguardi nitidi e meticolosi – quello dello scrittore-pedinatore Zavattini e del fotografo-nomenclatore Strand, il fotunato incontro di due naturali accesssi alla grazia del saper vedere e saper fissare nel ricordo quel che conta partendo da dati molto reali. Questo libro fissa facce che non ci saranno quasi piĂą e abitudini che magari hanno perso l’efficacia della persistenza.
ogni mese ha le sue incombenze precise. In gennaio si teme che la vite geli e si va a coprirla con la neve per proteggerla dal freddo; ma specialmente si riparano gli attrezzi, rastelli, badili, zappe, vanghe e si fanno scope dure, ce ne vogliono molte sia per la stalla che per l’aia. In febbraio c’è qualche volta da vegliare per i parti delle vaccine, si imbottiglia il vino quando cambia la luna, si vuotano i pozzi neri ed è allora che in piena notte si può sentire il muggito di un bue nel cuore del paese con il dondolante frastuono del carro sull’asfalto.
Paul Strand è l’uomo della native land, uno che ha negli occhi l’osservazione dello “stare a” e lo dimostra in queste immagini che sembrano radicare i soggetti al posto in cui vengono ritratti. John Berger avrebbe detto che nella sua fotografia “l’approccio sociale alla realtĂ potrebbe essere definito documentario o neorealista” o “Strand ha un occhio infallibile per l’essenziale”.
Anche Zavattini ha lo stesso sguardo e pure nel suo caso l’osservazione non è però mai istantanea ma ha la misura della biografia, della vita intera. Il racconto di Luzzara è il racconto di un universo in una strada e il Po è non un fiume ma un’epica. Un’epica talvolta eroica o magica che fa dire a uno dei protagonisti di questa indagine socialsentimentale “devo dire che quando c’è la piena nessuno scappa via, tutti stanno sull’argine a guardare fisso l’acqua come se la potessero fermare con gli occhi”. E sembra quasi una dichiarazione di poetica dei due autori Strand e Zavattini.
Una donna va ad abitare in una casa e ne nasce un transfert. Il documentario “Alba Meloni. Stella nelle mie stanze” della regista Nadia Pizzuti è il racconto di un dialogo a distanza pur nella differenza.
La Pizzuti cerca nella sua casa le tracce della vecchia proprietaria – Alba Meloni, staffetta partigiana, che partecipò giovanissima alla Resistenza – ricomponendo i tasselli di un’identitĂ perduta che mai come oggi ci parla, nelle scelte del coraggio e della differenza. Ed è la differenza il tema, come detto risalente del documentario. Nessuna facile e oleosa identificazione, nessun transfert genuflesso al mito lontano della lotta partigiana.
La combattente, nome di battaglia “Stella”, si presenta alla regista attraverso oggetti e libri rimasti nella casa. Una presenza vivida riverberata da registrazioni originali che ce ne restituiscono la voce e quella dei compagni e compagne di lotta, gli amici.
L’aria della abitazione, l’osservazione degli oggetti, i luoghi della vita, romana e testaccina, in particolare, compongono una lettera a un’Alba ormai scomparsa che passa per le immagini bellissime della casa e del quartiere, del Tevere che scorre inesorabile. Squarci di una romanitĂ colta dalla bella fotografia della regista insieme a Lorenzo Pallini.
Un salto indietro ed ecco la Roma resistente tra Via Tasso e il bombardamento di San Lorenzo, l’orrore dell’occupazione e della guerra nella corale delle partigiane Luciana Romoli e Gianna Radiconcini che raccontano la Resistenza delle donne-staffetta, il loro ruolo delicato.
Poi il raconto di Alba-Stella nel dopoguerra quando diviene funzionaria nel Pci, lavorando nella redazione di Pattuglia, de L’Unità , Rinascita, Editori Riuniti, Noi donne e nell’Udi fino agli ultimi anni nel sindacato.
Un ruolo “di retrovia” ricostruito con l’aiuto dei compagni del Rione, come il senatore Emanuele Macaluso per non dimenticare la persona e ricordare alla fine del documentario come i luoghi preservino la memoria del tempo.
La vita in intervista di uno dei più grandi sceneggiatori del Novecento nel libro di Jonathan Giustini “Chi si firma è perduto. Ennio De Concini: Memorie di un fallito di successo” (Postfazioni di Roberto Faenza e Renato Minore), Iacobelli Editore.
Fabio Galluccio, autore ed amico ci ha lasciato. All’improvviso. Un rapporto di amicizia e di colleganza ci legava. Le nostre strade si sono incrociate ai reciproci esordi. Per me narrativo per lui saggistico. Qui un articolo di Zenone Sovilla che di quella esperienza fu animatore e compagno lo ricorda con parole esatte e partecipi a cui mi lego e che condivido ringraziandolo di poterne fare uso. (Roberto Carvelli)
Facciamo presto, creiamo un grande sogno collettivo! Il centenario della nascita di Tonino Guerra (questo articolo in una forma diversa è uscito su Il Messaggero ieri) e anticipa in qualche modo “Fellini e Guerra. Un viaggio amarcord” (Ponte Sisto), appena uscito.
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