Noi, anche noi ci aggiungiamo al coro. E il coro dice che sono belle “Le cose belle”. Ma belle davvero. Elogio del documentario di Ferrente e Piperno.
Aggiungiamo parole al silenzio di Silvana. Le cose belle che lei non riesce a dire. E iniziamo a parlarvi di questo piccolo capolavoro.
Tutto nasce da “Intervista a mia madre”, di Agostino Ferrente e Giovanni Piperno. Nell’estate del 1999 i due registi raccontano le storie di quattro ragazzini, quattro vite che si intrecciano nella Napoli del popolo. Il film, trasmesso in prima serata su Rai Tre registra un record di ascolti (9% di share in media, circa 2 milioni di spettatori). Stiamo parlando di un documentario. Vi è chiaro?
Crediamo di sì. Dopo, Agostino Ferrente e Giovanni Piperno girano “Le cose belle”: 15 anni di vita. Di vite. Le vite di Adele, Enzo, Fabio e Silvana, raccontate in due momenti cruciali delle loro esistenze: la prima giovinezza nella Napoli piena di speranza del 1999, e l’inizio dell’età adulta raccontata in un arco di tempo che va dal 2009, con la loro città ostaggio dell’immondizia, al più lieve 2013. Ma per quanto Napoli non sia la città dolorosa della loro adolescenza la vita ha iniziato a mordere con le sue disillusioni e la fine della spensieratezza. Tutto qui. Semplice e pure straordiario. Bello, come bella è la vita. Anche nel suo male. Questo è “Le cose belle”. Un successo non solo italiano. Non più di nicchia. Un successo di una cosa piccola ma bella, carverianamente parlando.
Ed ecco il giusto, voluto riconoscimento. Un cofanetto (con Istituto Luce) che contiene il film, i suoi prodromi, un’antologia dell’amicizia di chi lo ha apprezzato (“Parlami delle cose belle. Storie di fiori tra le rovine” – Derive Approdi). Alla testa Christian Raimo, il curatore, che a ragione chiosa introducendo il florilegio del film: “Quello che ne viene fuori è veramente un film teatrale, nel senso di plastico e irripetibile, capace di liquidare qualunque retorica su Napoli, splendore e bellezza, crimine e allegria, per riportare a una dimensione umana, vicinissima, paradossalmente dialettica, la storia contemporanea di questa città e, per facile metonimia, di tutta l’Italia”. E ha ragione quando ricorda che c’è un’Italia cinematografica che marcia. In silenzio, con serietà, marcia.
Va verso dove deve andare e non cerca strade facili per rappresentare Napoli o un’arnia di api o le quattro stagioni di un paesino calabrese o il grande raccordo anulare di Roma. E serve spesso questa grazia che per Raimo “è l’altro talento stellare che Piperno e Ferrente” hanno, ovvero “quello di infischiarsene dei confini tra fiction e non-fiction”. E chi osa i confini viene premiato. Vale per i due come per altri registi docu.
Il libro che recensiamo è un po’ l’evento che festeggiamo. Questa incessante messe di presenze ai festival e premi che ne anticipa il tributo di oggi. Come l’affetto che molti – alcuni censiti nella forma semplice dell’amicizia – hanno ora voluto tributargli accompagnando l’uscita DVD.
Il tema del tempo in “Le cose belle” ha una sua importante valenza. Ecco qua. Lo dice anche Lorenzo Pavolini. Perché ne “Le cose belle” la “relazione causa effetto diventa puntiforme, non trovo una parola migliore per dire che in ogni punto (scena) del film questa relazione è pienamente e sempre a somma zero, come d’altronde è subito mirabilmente espresso in epigrafe: «a Napoli» il tempo non esiste”.
Ma, anche a Napoli, il tempo passa e traccia la vita. “Niente. Semplicemente la vita” come semplifica con severa leggerezza Elena Stancanelli nel suo accorato ma composto tributo in cui usa le parole più adatte alla semplicità della pellicola: “La vita, accadendo, porta confusione nelle loro teste”. Ce l’ha coi protagosisti. “Sembrava facile, e invece non ci stanno capendo più niente.” C’è sì, ha ragione, un momento in cui il semplice si complica e pur rimanendo semplice si allontana da noi.
Come quando – ed è una delle due scene che abbiamo forse amato di più – l’amico lascia Enzo al suo tour porta a porta per la compagnia telefonica che deve promuovere, tour che sostituisce quello della posteggia. In quella piccola frattura c’è molto del film, della sua forza.
Ma anche se è il sogno di Silvana che è il più doloroso forse e “impressivo” per noi, la durezza dolce del ballo davanti al juke box di Adele è la rappresentazione più spiazzante di una poca cosa nella cornice della musa della danza fine a se stessa. Ed è questa crediamo la scena simbolo, quella che abbiamo amato di più. Per tutta la composta allegria che non sogna lontano e infatti non va lontana come in una profezia che si autoavvera. Rimane lì dove è. Davanti a un pubblico ridotto e un po’ casuale. Non televisivo. Non massivo. L’unico a cui avrà, purtroppo (o, forse, per fortuna), accesso.
Per Maurizio Braucci, che come pochi può parlare e scrivere di Napoli senza oleografia, parlare della “capitale italiana della disoccupazione giovanile” conduce a un termine giusto anche se sembra vetero ed è “proletariato” anche se va spiegato: “proletari sono oggi quelli che sono ai margini dei diritti e della democrazia, non sono operai, non sono più sottoproletari (perché sanno leggere e scrivere) e sono chiamati comunque ad una partecipazione (passiva, strumentale, manipolata) alla vita sociale ma in termini di consumo e di consenso verso le necessità dei mercati e della politica”.
Ogni voce che lancia il suo inno a “Le cose belle” trova un’assonanza sua. Qualcosa che gli risuona e nel farlo può – questa la grandezza del documentario di Ferrente e Piperno – partire da dati diversi: poetici o politici, come fossero intercambiabili.
In definitiva, in questa luce di osservazione del tempo – poetica e storicamente universale – crediamo che “Le cose belle” non prenderà polvere, non subirà inestetismi, né obsolescenze. Come la Vita-matrice e diversamente dalla Morte che altro non è che vita+tempo. Ed è raro che il cinema della realtà qual è il documentario riesca a liberarsi del giogo pesante del flusso temporale che inchioda alla fine.