Il libro di Annalisa De Simone “Non adesso, per favore” (in uscita per Marsilio che ringraziamo per l’estratto) descrive geograficamente due città con due sismi. Per L’Aquila va da sé si tratta del triste, e rattristante ancora oggi per la lenta ripresa, terremoto geologico. Per Roma (di gran lunga location protagonista del libro) la scossa è quella di un amore da subito fuoriosamente sensuale tra una giovane editor aspirante autrice (la protagonista) ed un affermato e navigato scrittore indisponibile all’amore “coniugale”. Il brano, dal quarto capitolo, che estraiamo ci mostra lei alle prese con il primo bilancio di vita romana mentre esce per la prima sera con Ferretti (sempre al cognome), lo scrittore di cui subisce la malia.
Mi sono trasferita nella capitale dopo la maturità classica.
Il ricordo del liceo, l’edificio d’epoca, l’odore di polvere
nella biblioteca, il freddo nelle stanze alte con le finestre
strette è un impasto di nostalgia e di sollievo (per aver oltrepassato
il varco di mattine tutte uguali). Quando si è
trattato di decidere il corso di laurea non ho indugiato sulla
solita indecisione: Scienze umanistiche, la versione restaurata
di Lettere e filosofia – dove restauro sta a indicare
un ginepraio inutile di corsi monografici. Massimo dei voti
e bacio accademico, grande soddisfazione dei miei genitori
che per l’occasione erano arrivati da L’Aquila con abiti
nuovi, fiori in mano e una carovana di zii che mi sembra
molesto stare qui a elencare.
Dieci anni, quelli romani, in cui sono avvenute grandi
scoperte. L’impellenza dell’autogestione, il distacco dalle
abitudini di provincia – solito bar, solito vino, solita gente
trita di solite battute e solite strade avvolte dai soliti orizzonti
–, la solitudine buona quando pensi che non ti manchi
nulla e quella triste quando ti accorgi che non sei ancora
niente; nevrosi da sovraesposizione al traffico, rumori
assordanti, clacson, frenate e sirene che piombano in casa
costringendoti ad alzare il volume della tivù; le occasioni
dietro l’angolo che una grande città come Roma ti promette,
l’amarezza nello scoprire che tale angolo è ignoto ai
più; un individualismo diverso da quello dei miei compaesani,
tara di una competizione più aspra che ti smalizia in
fretta; le rovine della città eterna alla sera avvolte da una
luce soffice, i riflessi del sole sulle sagome in pietra dell’antichità,
la curva dei gabbiani nel cielo, l’odore dei platani
intorno al Tevere, calcare nell’acqua, capelli che si sporcano
subito, manto stradale sconnesso, chiostri di fiorai
aperti a tarda notte, motorini impazziti e tanfo di piscio
dai tombini.
Dieci anni che hanno compreso una laurea triennale
senza fuori corso e una laurea specialistica stiracchiata in
una decina di mesi oltre il dovuto. Vita universitaria da
manuale, appartamento a tre stanze senza salotto, bagno
condiviso, compagne di studio all’occorrenza, nottate di
alcol e dosi multiple di caffè per perdere il sonno alla vigilia
di un esame. Traslochi tutti nello stesso quartiere, San
Lorenzo, ombelico del mondo studentesco; ancora case
senza salotto, compagne di studio che nel frattempo erano
diventate amiche, consuete nottate di alcol, ma meno frequenti
per attutire i sensi di colpa del fuori corso. Massimo
dei voti per la laurea specialistica, degna degnissima
soddisfazione, seguita dal tirocinio nella minuscola casa
editrice.
L’anno scorso, da stagista sorrisi&bozze&fotocopie sono
diventata l’editor di punta. La buona sorte – e non vuole
essere nota di demerito in mio sfavore – mi ha permesso
di rimpiazzare Marco Giancola, in aspettativa prolungata
dal lavoro. Dopo alcuni mesi ho creduto di cavarmela davvero
bene con le parole, tanto da terminare il mio primo
romanzo che è stato pubblicato dalla minuscola casa editrice.
Trecento copie vendute, due terzi nella mia città e
temo dalla mia famiglia fino all’ultima propagazione della
stirpe. Ma questa è un’altra storia…
I dieci anni a Roma hanno visto ragazzi scadenti, fuochi
di paglia che mi lasciavano stordita e poi tramortita, uomini
fascinosi a scadenza breve, uomini sposati, circoncisi,
egoisti, spiritosi, complicati, uomini dozzinali e uomini
ignoti, mai arrivati, a cui ho pensato spesso, così spesso
che per sfinimento ho smesso di aspettarli. Uomini diversi
fino a Daniele, con cui ho resistito due anni prima di dirmi
che non eravamo fatti per stare insieme.
A quel punto, nuove amiche oltre alle storiche compagne
di corso, immancabili serate alcoliche, concerti jazz in
locali sperduti sulla Nomentana, sesso con sconosciuti –
una volta da ubriaca, ricordi nebulosi –, librerie aperte
anche di notte, che meraviglia, una consapevolezza di me
che ho sviluppato con qualche indecisione ma che alla fine
quasi convince.
In questi dieci anni ho pensato di essere serena e a volte
lo sono stata sul serio. Finché la vecchia spensieratezza
non è diventata un altrove che non so dove cercare. Una
vita vissuta da una ragazza che non sono io, l’Annalisa che
ha abitato questa pelle, di cui conosco sogni e cimeli e di
cui invidio l’ingenuità andata persa. È un’Annalisa di cui
non c’è traccia, ma che quella sera sulla terrazza dell’hotel
Minerva, accanto a Ferretti, esisteva ancora.
Annalisa De Simone (L’Aquila, 1983) vive a Roma, dove si laurea in Scienze umanistiche e, alcuni anni dopo, in Filosofia teoretica. Il suo romanzo d’esordio è Solo andata (Baldini&Castoldi 2013). Collabora con «l’Unità» e «Il Sole 24 Ore».