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È facile andare in Giappone se sai come farlo

È facile andare in Giappone se sai come farlo ovvero la atipica guida di Cees Nooteboom “Cerchi infiniti. Viaggi in Giappone” (Iperborea).




Quando ami il Giappone è per sempre. Poi certo come appunta in post-fazione a questo libro Giorgio Amitrano, che di Giappone se ne intende (traduttore della Yoshimoto e Murakami Haruki, professore, orientalista nonché direttore dell’Istituto di Cultura Italiano a Tokyo), il rapporto di Nooteboom negli anni è cambiato. Pensiamo noi: forse è calata l’emozione e le si è sostituita una convenzione.

Ma, pensiamo sempre noi, l’incantamento forse scema con il venire meno dell’esotismo che più di altre nazioni tiene per il collo il turista europeo o occidentale nella terra del Sol Levante.

L’assunto è: il Giappone è altro da noi. Forse è persino altro da sé. La terra delle molte possibilità non per forza tutte replicabili. Ma magari poche emendabili. Il Giappone è bello così. E poi: alla seconda o forse alla terza visita o oltre le cose si normalizzano pur non perdendo questa alterità. Via l’esotismo, via la bellezza se intendevamo questo come elemento determinante di fascinazione! Ma se anche va via la bellezza, l’alterità rimane e va forse ripensata.

Quando incontro italiani in Giappone da anni a questo penso – o questo mi arriva dai loro diari a voce -: hanno superato l’esotismo pur non diventando gispponesi per osmosi. Cosa sono? Cosa diventano? Riescono a rivedere la loro condizione di estraneità?

Cees Nooteboom lo fa con dei viaggi. Un pelino meno di una vita. Lo fa e lo racconta. Passa per delle osservazioni di passaggio. Di transito: “Il viaggio in aereo è troppo veloce, l’anima ti resta indietro da qualche parte e solo un paio di giorni si riunisce al corpo”. Un concetto da antropologia primitivista. Poi ecco la prima riflessione sul nostro concetto di alterità: “gaijin letteralmente significa outside person” e poi spiega che il concetto più proprio della lingua giapponese è tanin. Tanin, conclude Nooteboom è lo straniero camusiano.




In questo primo viaggio del 1977, forse il suo pezzo più bello sul paese c’è un’ampia riflessione sulla lingua. Le parole per dire amore, il mono no aware: “il pathos delle cose, il riconoscimento della speciale bellezza dell’effimero”. Il concetto così peculiare del lavoro, quello per cui un dipendente malato per qualche tempo può rifiutare una promozione pensando di non meritarla per la prolungata assenza dal posto di lavoro – un concetto di collettività interrelata non come gregge indistinto che a noi forse “figli (uguali) di dio” sfugge completamente. I kamikaze – la faccia brutta del “servire” la collettività – e via così.

Poi arrivano i luoghi. Kyoto: “Che cosa mi è rimasto impresso di Kyoto, oltre alla stessa Kyoto? Un’immagine da nulla e un’immagine di tutto”. Ovviamente racconta il bellissimo Todai-ji. Il tempio più magnificente forse dell’intero Giappone oltre ad una delle statue più belle dell’illuminato insieme a quella del Grande Budda di Kamakura.

Il concetto giapponese di “due è uno e uno è due” che a noi può sembrare così magico e invece aiuta il racconto del legame tra le cose, tra gli eventi che noi occidentali tendiamo a sigillare nella separatezza.

Nei pezzi successivi un po’ come nell’immenso saggetto di Tanizaki “Il libro d’ombra”, Nooteboom racconta la casa giapponese. Poi in “Cerchi infiniti” (pezzo che dà il titolo al libro) la nuova rivelazione: “Nei viaggi in paesi lontani c’è sempre inevitabilmente un secondo arrivo, quello vero”. Si sostituisce al primo e crea la frattura con il posto (e il tempo) di prima (del viaggio). Può avvenire non subito. E lo scrittore olandese lavora ancora sulla condizione della estraneità. In questo pezzo lavora sui libri – “il mio Giappone è un Giappone di libri”. Inevitabile il confronto tra l’immaginario/to e il reale. E’ questo il secondo pezzo bello del libro. Le pagine su Murasaki sono molto belle e bello è l’approfondimento di alcuni ceoncetti meravigliosi del pensiero buddista come “kokoro, cuore illuminato, quello che ottieni quando penetri fino all’essenza del Budda”.

Siamo di nuovo a Kyoto e ai suoi templi in collina. Poi si cambia scena e siamo in un pezzo dedicato ai monasteri. A quelli meno raggiungibili: “Appena ti liberi delle città e dei treni sovraffollati inizia l’altro Giappone, quello di paesi e villaggi, di piccole locande…” lo scrittore ritorna all’elegia, a una spiegazione più esperienziale e meno ragionante. La scrittura si distende. Poi un pezzo su Hokusai e sulla sua mostra parigina. In definitiva un libro in fieri su un confronto nel tempo con se stessi in un altrove che vogliamo conoscere. Utile anche a chi si interroga sul concetto di viaggio e di luoghi.




Di roberto carvelli

Founder e direttore di "Perdersi a Roma" collabora con Il Messaggero, il Venerdì e Nuova Ecologia. Ha pubblicato libri di prose, poesie e narrativa di viaggio tra cui "Letti" (Voland), "AmoRomaPerché" (Electa-Mondadori), "La gioia del vagare senza meta" (Ediciclo), "Fùcino" (Il Sirente), "Il mondo nuovo" (Mimesis), "Andare per Saline" (Il Mulino) e "I segni sull'acqua" (D editore).