La vita in intervista di uno dei più grandi sceneggiatori del Novecento nel libro di Jonathan Giustini “Chi si firma è perduto. Ennio De Concini: Memorie di un fallito di successo” (Postfazioni di Roberto Faenza e Renato Minore), Iacobelli Editore.
“Ma lei è sicuro di voler scrivere?” Ho 20 o 21 anni (primi anni 90) e il signore che mi lancia questa spiazzante quanto demistificante provocazione barra intimidazione è Ennio De Concini.
Un grande sceneggiatore dell’età d’oro del cinema che in quegli anni chiude la carriera (inizio anni 90 – una specie di linea di confine tra la scuola dei nuovi e dei vecchi sceneggiatori, semplificando al massimo).
Mi è rivenuto in mente questo ricordo leggendo il libro di Jonathan Giustini “Chi si firma è perduto. Ennio De Concini: Memorie di un fallito di successo” (Postfazioni di Roberto Faenza e Renato Minore), Iacobelli Editore.
Lo leggo compulsivamente e con piacere anche per ritrovare quella speciale brillantezza del primo cinema italiano. Giustini sta interrogando De Concini sulla sua “prima volta in assoluto” come sceneggiatore ed ecco allora venir fuori roboante e scabra la verità di quegli anni d’oro.
Arrangiati – forse in qualche caso addirittura pasticcioni – ma vitali. E vitalistici.
E la radice della parola “vita” che torna a fare capolino ricordandoci quanto la spontaneità neorealista potesse venire fuori solo da quella temperie poco consapevole del proprio peso e proprio per questo forse molto franca e decisiva. Ecco la sua risposta fulminante:
“Una prima volta che mi ricorderò per sempre, perché rappresenta per me l’esemplare di un momento particolare, nel quale si decidevano le nostre sorti. Non era uno scherzo. Non era una semplice stronzata che si chiama cinema. Erano cose importanti: salvare la pelle, combattere, scriversi alla Resistenza, andare ad ammazzare i tedeschi per strada. Cose molto più serie. Del cinema non ce ne fotteva proprio niente! Tranne che a De Santis e Lizzani, che ci credevano di più. Te lo ripeto, in quel momento il problema numero uno era la lotta contro i tedeschi. Provo a chiudere gli occhi. A ricordare… C’è De Sica che decide di fare un film; trova un produttore, prende un soggetto di Zavattini, Diamo a tutti un cavallo a dondolo e dice: “Adesso cominciamo a sceneggiarlo”. In questo albergo vicino a via Veneto, con una grande terrazza. Ho immagini molto nebulose. Su tutto questo scoppia l’8 settembre. I tedeschi occupano Roma. E per noi si pone subito l’interrogativo: continuiamo a scrivere, oppure… Insomma, ci sembrò una tale stronzata continuare a scrivere il cinema, perché la cosa più importante era invece buttare le bombe, combattere”.
“Ma lei è sicuro di voler scrivere? È sicuro di voler fare questa vita?” Ho 20 o 21 anni e in tutto il fervore di quell’età giovanile sto per dichiarare tutto il mio presente e futuro fallimento (per chiosare il sottotitolo di questo bel volume) in un “sì”. De Concini mi guarda: eravamo a via Stoppani, nel seminterrato, preceduto da un piccolo giardinetto, al fianco dell’allora cinema Embassy, in cui lavorava indefessamente ancora a cose narrative facendo la spola tra i Parioli e un paese del reatino (credo Posta), una sorta di buen retiro lontano dal clamore luccicante di tutte quelle statuette – nel mio ricordo lontano addirittura l’Oscar e un Telegatto (di cui non trovo traccia nei palmarès) più tante targhe per i suoi grandi successi, anche post-cinematografici come le prime tre edizioni de “La Piovra”.
Parliamo in effetti di un Premio Oscar – nel 1963 per il soggetto e la sceneggiatura di “Divorzio all’italiana” che è però del 1961, di Pietro Germi. Di un’autore che ha collaborato, oltre che con Germi, con Antonioni, Soldati, Vancini, Damiani Leone e De Santis. Insomma un mostro sacro della pellicola italiana che conta(va).
Per chi non lo conoscesse, qui la lista dei suoi film https://it.wikipedia.org/wiki/Ennio_De_Concini ed è utile questa intervista:
De Concini mi guarda e dice: “Ma davvero vuole fare lo scrittore?”. Se fossi stato Pietro avrei detto tre “sì” ma quello era solo il secondo invito a parlare e nessun gallo cantava. Io ancora tacevo.
“Guardi – mi spiega De Concini – che lei sta andando incontro a una vita da cenobita, anzi, sa cosa le dico, proprio da stilita”. Non conoscevo la parola ma lui – appassionato di quel segmento di storia e persone – si affrettò a spiegarmela.
“Si tratta di stare in piedi su una colonna come un monaco penitente”. E ora penso che, anche se non è così per tutti, è spesso così. E questo non toglie bellezza alla scrittura e a tutti i suoi sacrifici. Ma anche a tutta la sua forza di introspezione di cui il libro è straripante. Come deborda per franchezza e radicalità di scambio con l’autore che affonda nella vita e nell’essenzialità (interessante e scabro il suo ricordo “severo” di un Fellini morente). Merito di una vita personale vissuta al brivido delle scelte più difficili.
Prova ne sia l’episodio “intimo” ricordato nella postfazione da Roberto Faenza. Anche se nella forma schietta dell’intervista, grazie al lavoro di scavo di Giustini e all’acutezza lucida e scabra di De Concini che, si capisce, non ha mai cercato sconti o lusinghe, il libro si pone come un’utile ricerca di senso tra arte e vita. E, sempre a proposito di orizzonti della scrittura, stiliti e mancanza di vanagloria lasciamoci con questa orizzontalità del grande sceneggiatore:
“Dopo aver fatto l’ultimo sforzo, essermi ritirato dal cinema e ributtato a scrivere, senti che le forze non ti reggono; ti ritrovi all’alba del 1995 con cinque libri tuoi che devono uscire e comincia a non fregartene niente, perché non ne hai un sesto da scrivere”.