Giulio Mozzi è nato a Padova nel 1960. La raccolta che lo ha fatto conoscere “Questo è il giardino” (Theoria,1993) lo ha subito eletto come uno dei più interessanti autori italiani di racconti. Seguono quelli de “La felicità terrena” (Einaudi, 1996). Il suo ultimo libro è “Favole del morire” (Laurana, 2015). Tiene corsi di scrittura, è consulente editoriale e animatore di uno dei più importanti blog dedicato alla scrittura: Vibrisse.
Roma non ricorre così spesso nella tua narrativa. Credi che sia un caso?
Milano ricorre ancora meno, Palermo mai. Eppure abito a Padova.
Giusto per smentirmi subito – un tuo racconto della tua raccolta seconda (“La felicità terrena”) si intitola “Roma”. Inizia così (non so perché ma da sempre mi è rimasto impresso questo incipit; sembra che abbia la forza quasi di un “continua tu”). “Quello che resta di una persona che Mario ha amata è conservato a Roma nel cimitero degli acattolici vicino alla piramide di Caio Cestio”. Mi parli di questo luogo?
Ma: quello che potevo dire su quel luogo – peraltro iperletterario e citatissimo – è in quel racconto. Posso aggiungere che da quando ho scritto quel racconto non ci vado più.
Nel racconto si dice di una “foresteria di religiose” che riesce a isolare un luogo molto romano ma poco visitato dalla narrativa.
Se lo dici tu, sarà così.
Un passo indietro, parliamo della prima raccolta. Roma compare in “Treni” e in “Per la pubblicazione del mio primo libro” ed evoca in entrambi i casi la considerazione di un’attesa. Qualcuno che attende, qualcuno che arriva. Vedi Roma come un termine di viaggio? Una funzione di un andare che prevede per forza un ritorno?
No. Semplicemente, a Roma ho subito uno degli abbandoni più terribili della mia vita.
“Adesso Mario sta andando a Roma dove c’è, forse, una donna che lo aspetta”. Questo è “Treni” per l’appunto. Immagina che sia un qualcosa più che un qualcuno ad aspettare questo Mario a Roma. Che cosa sarebbe; da cosa ti senti chiamato tu?
Non capisco.
Hai dedicato da sempre molta attenzione al tema del paesaggio. Come lo metti in relazione con Roma?
Ho esplorato spesso, direi quasi solo, luoghi assai poveri di storia. Roma è l’esatto contrario.
La storia della letteratura italiana novecentesca e post è storia di provincia più che di città. Sovente di provincia che viene in città e la racconta. Ti senti di condividere questa idea e se sì in cosa? Te ne senti parte?
Ma: il Novecento è stato il secolo dello spostamento delle attività produttive e delle residenze dalle campagne alle città e dalle province alle metropoli. Mi pare ovvio che nelle narrazioni si parli di questo.
Sei una specie di “trenomaratoneta” per la tua funzione, diciamo così, consulenziale legata all’editoria e ai corsi di scrittura. Ricordo di aver letto dei tuoi viaggi milanesi. Ma hai avuto, con Theoria, soggiorni romani. Cosa ti ricordi?
Ricordo il meraviglioso ufficio postale di Piazza Bologna (anche se non bello come quello vicino alla Piramide).
Theoria – per parlare di editoria – è stata un’esperienza generativa, pensando a Roma e ai libri. Riconosciuta ma non abbastanza storicizzata. Tu fai parte – con Veronesi, Petrignani, Lodoli, Onofri, Abbate e molti altri – di quel manipolo virtuoso di esordi tenuti a battesimo nel Quartiere Italia.
Io ero fuori manipolo, stavo in provincia.
Tornando al tuo insegnamento della lettura e della scrittura, al tuo intenso lavoro di scouting. Trovi Roma una città di effetto letterario o poco rappresentabile? Leggendo e scovando autori, leggendone altri, trovi che la presenza della Capitale sia più o meno di altri luoghi degna di sfondo?
Non lo so. Non mi faccio domande di questo genere. Mi domando se i testi che leggo sono belli o no, tutto qui.