I nomi di Don DeLillo, una recensione.
Non ha la vastità epica di “Underworld” né la forza critica di “Rumore bianco”, ma alla fine “I nomi” è il romanzo di Don DeLillo che mi emoziona di più. Strano, considerando quanto è distante dal baricentro di questo autore (è un romanzo dove il passato una volta tanto conta più del futuro e dove gli Stati Uniti non sono il teatro dell’azione ma vengono raccontati da sperdute isole greche e o dal Medio Oriente).
Riletto in questi giorni per la terza volta. Rinnovo la mia ammirazione per questo autore. Ne “I nomi” DeLillo fa almeno due cose che mi affascinano (e che io, come scrittore, inseguo da tempo col fiatone del gregario).
La prima. Nascondere una trama thriller all’interno di un romanzo colto. Non è la cosa in sé a essere sorprendente, quanto l’olimpica armonia con cui l’autore riesce a far dialogare le due anime.
La seconda, più difficile da spiegare. L’immaginario di DeLillo è sempre stato costituito dalle paranoie della cultura occidentale. Nulla di strano visto che si tratta di un autore postmoderno. Ma l’elaborazione di questo immaginario – a differenza di quello che fanno molti altri suoi colleghi – in DeLillo assurge al livello di una mistica. Una mistica rispettosa, priva di colore satirico. Nell’ambito della produzione di DeLillo, “I nomi” costituiscono la vetta di questo percorso ascetico.
Come spesso accade negli autori postmoderni c’è un’attenzione ossessiva nei confronti dei non-luoghi, delle masse, della paura della morte. Di nuovo, nessuna originalità nei temi trattati, ma ne “I nomi” DeLillo affronta tutto questo con una scrittura di cristallina bellezza che si fissa come canone:
“Lungo una costa nordica al tramonto, una sommessa luce dorata nasce dall’acqua, si allarga a ventaglio sui laghi e traccia fiumi sinuosi verso il mare, ed eccoci di nuovo in viaggio, instupiditi e ignari della remota bellezza sotto di noi, della terra d’ardesia e la pianura che ci lasciamo alle spalle, attraverso fasce di pioggia nella notte. Per noi, questo è tempo del tutto perso. Non ce ne ricordiamo. Non ne riportiamo impressioni e sensazioni, nessuna voce, nulla del potente vento sollevato dall’aereo sulla pista, o del rumore sommesso del motore in volo, o delle ore d’attesa. Nulla ci resta attaccato oltre al fumo nei capelli e sugli abiti. È tempo morto. Non è mai esistito finché non esiste di nuovo, e dopo non è mai esistito.”