Il Cuore di Costantinopoli. Un réportage di Edmondo De Amicis su “Costantinopoli”per non dire che si viaggia solo ai tempi di booking.
La lettura di un libro di viaggi stimola una serie di domande banali a cui però è molto difficile rispondere: che cos’è un luogo? e questo luogo, per esempio una città, è descrivibile? la lingua insomma può veramente dare conto di qualcosa che è diverso dall’uomo?
Le risposte sincere sono: non so, no, mi sembra un’impresa ardua, cui si arrischia il mistico, il filosofo. Tuttavia la narrativa di viaggi è spesso considerata un genere minore, un’attività di servizio al di qua dell’impegno intellettuale. Suscita perciò quasi stupore che Einaudi ripubblichi oggi nella collana dei classici il resoconto di un viaggio nella capitale dell’impero ottomano pubblicato nel 1877-78 dal futuro autore di Cuore (Edmondo De Amicis, “Costantinopoli”, con un’introduzione di Umberto Eco, a cura di Luca Scarlini, Einaudi, Torino 2007, pp. 157, € 9,80).
Il libro, finora noto solo agli appassionati dell’Oriente e pubblicato da editori piccoli o di settore, arriva però nei quartieri alti della grande editoria pagando vari pegni. Innanzitutto gli fa da garante il nome di Eco, che nello stesso Diario Minimo (1962) in cui descriveva il fenomeno Mike Bongiorno, elogiava Franti e ha dunque la patente di deamicisiano (assai critico, com’è giusto) da sempre.
Poi il dotto intervento di Scarlini inserisce Costantinopoli nel clima sociopolitico e letterario di fine Ottocento, ma rivela pure che dei suoi diciassette capitoli la presente edizione ne riproduce soltanto sei. Nobilitato e parzialmente scremato, il prodotto è infine incartato da due pagine di bibliografia che ne dichiarano definitivamente l’appartenenza al mondo culturale (non aveva invece trovato posto, come del resto tutte le altre prose di viaggio, nel volume di Opere scelte curato da Folco Portinari e Giusi Baldissone per i Meridiani Mondadori nel 1996, benché nell’introduzione ne venisse elogiato lo stile).
Le ragioni della pubblicazione sono però espresse nella quarta di copertina: il premio Nobel Orhan Pamuk e Jason Goodwin, l’autore del fortunato poliziesco L’albero dei giannizzeri, entrambi autori Einaudi, hanno scritto parole di elogio su Costantinopoli.
Se dunque il reportage ottomano di De Amicis si è conquistato un suo posticino nella world literature dei nostri giorni, quali sono le sue benemerenze? Tornando alle domande iniziali, va detto che De Amicis non descrive Costantinopoli: la seppellisce di descrizioni d’autore e a causa di questo eccesso, non ce la lascia vedere (così come, a detta di Dino Risi, Nanni Moretti non ci lascia vedere i suoi film perché è sempre in primo piano lui).
Ma se non pretendiamo che uno scrittore ci dica cos’è veramente il luogo che visita, se ci basta che ci dica le sue impressioni, che ci riassuma le notizie dei cento libri che ha letto sull’argomento, che si faccia portavoce dei pregiudizi della sua epoca e della sua cultura, allora dobbiamo ammettere che De Amicis con Costantinopoli ci ha lasciato un documento formidabile.
Un ligure della piccola borghesia, piemontese d’adozione, che, finita la III guerra d’indipendenza, si è preparato per dieci anni al viaggio, ha fatto un anno di sacrifici per mettere insieme i soldi necessari e ha dovuto sostenere “battagliole in casa” per poter partire, ha viaggiato, tra andata e ritorno, venti giorni per mare ed è stato a Costantinopoli non più di qualche settimana, ha poi raccontato la sua esperienza accumulando una montagna di aneddoti, di cose e persone viste o intraviste, di momenti magici, conturbanti o pietosi, confondendo l’esperienza diretta con le fonti letterarie che lo hanno ispirato.
Ne è risultato un compendio ricchissimo dei pregiudizi occidentali sul Turco, un libro che è la quintessenza dell’esotismo, del colore locale e dell’arte del bozzetto, che tuttavia dà anche conto dell’epoca delle riforme (Tanzimat, 1839-71) con cui i sultani promossero l’occidentalizzazione come risposta al declino dell’impero e al colonialismo europeo. Ma soprattutto delinea il ritratto del piccolo borghese italiano attratto dalla seduzione esotica dell’Oriente e impaurito dalle spade e dai Corani, ben contento di vedere le une arrugginite e gli altri poco letti, mentre i veli delle donne più che segni di un’austerità che un po’ fa invidia, un po’ dà sui nervi, sono in fondo solo delle raffinate attrattive erotiche. Memorabile la pagina in cui, dopo una descrizione del Gran Bazar, estenuante nella sua meticolosità (che in parte scusa la scelta di antologizzare il testo), il viaggiatore vorrebbe comprare tutto “e bisogna proprio esser figliuoli assestati o padri di giudizio per resistere alla tentazione” (p.58).
In questa figura del buon padre di famiglia (protagonista anche del codice amministrativo italiano) che è sul punto di farsi convincere a rovinarsi comprando l’intero Bazar perché vive di sogni e vorrebbe il socialismo o, in subordine, diventare un borghese straricco, già intravediamo l’invenzione di un altro grande ligure che aspetta il giusto riconoscimento critico: il ragionier Ugo Fantozzi nato dalla fantasia di Paolo Villaggio (a quando un Meridiano anche per lui?).
Fernanda Pivano ci ricorda che Hemingway, col suo stile asciutto e reticente, che lascia vedere solo la punta dell’iceberg, ha insegnato a scrivere a generazioni di giornalisti e scrittori americani. Un suo breve articolo da inviato nella capitale ottomana che viveva i suoi ultimi giorni imperiali apparso sul “Toronto Star” il 28 ottobre 1922 sembra infatti essere un perfetto riassunto delle trecento pagine deamicisiane.
Pochi giorni dopo, in una mezza pagina finita tra i 49 racconti, Hemingway avrebbe descritto magistralmente l’evacuazione dei greci da Adrianopoli (Edirne). Viene da chiedersi se nella opposta poetica deamicisiana del non buttare via niente, di arricchire anzi il vissuto con massicce dosi di letteratura, non vi sia uno di quei caratteri nazionali (che producono l’immensa e acritica Naturalis Historia di Plinio il Vecchio, o le abbuffate di Fantozzi, da cui il ragioniere emerge con la lingua in fiamme) che incuriosiscono gli stranieri, ma che ci spingono oggi a fare un po’ di dieta.
Questa recensione al réportage di Edmondo De Amicis “Costantinopoli” è stata pubblicata su “Il Manifesto – Alias” n° 45 – 17 novembre 2007.