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Il Dottore

Il Dottore: un ritratto di perfetta sbadata crudeltĂ  visiva con cui Daniela Gambino racconta l’amore che fa male in “La perdonanza” appena uscito per Laurana.

Il giorno dopo Ludo aspetta il dottore all’uscita dal lavoro, accende il motore appena sorpassa la soglia. Lo porta via in
auto.

Ha un solo desiderio: cambiare, cambiare, cambiare. Ha un solo desiderio: non ripetere lo stesso copione. La stessa sceneggiatura. Ha un solo desiderio, trovare la chiave per rassicurarlo, per non farlo vivere nel suo stesso terrore.

Pensa a come le ha parlato del suo lavoro, la prima volta.
“Veramente”, gli ha detto, “sei medico urgentista? Immaginavo che operassi, al volo”.

“Più che altro rimetto insieme le persone, quando arrivano al Pronto Soccorso. Se c’è da spaccare, spacco”.
“Il sangue non ti fa impressione, suppongo”.
“Ho confidenza col sangue”, ha risposto lui.
Le ha messo paura, giura, uno che dice cose del genere è spaventoso, ha pensato. I medici non le sono mai piaciuti, le fa orrore il loro mondo di certezze scientifiche e l’odore di alcol dentro cui si muovono, ma lui face eccezione. Adesso, che sono le nove di sera, ha qualcosa di eroico.

Ha la faccia un po’ stanca e lei vorrebbe che il traffico si aprisse in due ali davanti a loro. Ha la faccia stanca e dovrebbe dormire. Se fosse brava lo lascerebbe passare avanti urlando: “Questo ragazzo ha bisogno di riposare!” E intanto gli toglierebbe la fatica di dosso come fosse il maglioncino che tiene sulle spalle. Se fosse brava farebbe largo fra le sue cose, tirerebbe fuori un paio di lenzuola fresche di bucato e ricaverebbe, nella sua vita, un piccolo posto comodo per lui.




In casa lui toglie subito le scarpe, siede sul letto, tira su una gamba dei pantaloni, si ispeziona “la tibia” come la chiama lui.
“Vedi questa cicatrice?”, le chiede, indicandola, “me la sono fatta a dieci anni, con la catena della bicicletta, sette punti”.
Continua a osservare: “Devo averci un altro paio di punti da qualche parte”, annuncia. Compie dei contorcimenti per vedere se la trova, dietro un ginocchio.

“La cicatrice dell’appendicite te l’ho fatta vedere?”, domanda, “operato d’urgenza a tredici anni”.

“Certo”, fa lei, “l’ho anche baciata, il tuo trofeo di guerra, ma come, non te lo ricordi?”

Rinuncia ai due punti del ginocchio, non li trova. “Andiamo bene”, le fa notare, “ormai ti mostro i miei segni, spudoratamente”.

Lei mette su un cd, gli legge un paio di titoli. “Come stai messo con l’inglese?”, chiede.
“Oh!”, fa lui, “Sto messo very well”.
“Ecco”, considera lei, “questo tipo di battute, in un uomo che ha lavorato in un Pronto Soccorso fino alle nove, non sono fantastiche?”