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Il fascino del tren(in)o

Il fascino del tren(in)o non muore mai. Tra i tanti “lo sapevate?” e “sapevatelo” il libro di Romano Vecchiet “Il fascino del treno. Piccole divagazioni di viaggio tra binari e stazioni” (ediciclo) ne enumera un bel po’ che forse sfuggono anche ai più accaniti pendolari.


La bella ventitreesima uscita della collana “Piccola filosofia di viaggio” della casa editrice veneta offre curiosità e divagazioni che sembrano seguire l’andatura del tu-tum-tu-tum della nostra infanzia. Passano per la grande letteratura (Vittorini, Majakovskij ma pure il Carlo Cassola di “Ferrovia locale” e il “Congedo del viaggiatore cerimonioso” di Giorgio Caproni). Sotto la loro stella come pure il satellite “sociale” rappresentato dalle copertine di “Grand Hôtel”.

Con loro fioccano pure però le domande. Come, ad esempio, a chi attribuire il merito di aver iniziato negli anni Settanta del Novecento la direttissima (come allora si chiamava) Roma-Firenze, la prima grande opera pubblica in campo ferroviario del dopoguerra. Già, a chi?

Estraiamo dal libro una curiosa fuga tra realtà e modellismo.

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Sulla Venezia-Trento, la linea della Valsugana, vi sono poi due stazioni di un’importanza tutta particolare: San Nazario e Pergine. Credo che mai due stazioni italiane abbiano giocato un ruolo più importante di queste nell’immaginario di tanti adolescenti negli anni Sessanta (e ovviamente dei loro padri, interessati acquirenti e assistenti dei loro giochi), al centro di nodi ferroviari assai complessi, molto più complessi della semplice linea che le lambiva nella realtà.

Prodotte in scala 1:87 dalla più blasonata ditta di materiale fermodellistico italiano, la Rivarossi di Como, adornavano i plastici di noi appassionati, e costituivano delle icone fortissime dei nostri hobby in miniatura. Non c’era un impianto di modesta dimensione che non avesse installato una delle due stazioni. Certo, Pergine era di gran lunga più bella, quasi un grande chalet alpino, col tetto spiovente e gli scuretti in legno sulla facciata bianca graffiata, e un corpo basso che conteneva il bar, raccordato al resto.




Chi poteva permettersi Pergine, annoverava anche un plastico di dimensioni importanti. San Nazario, invece, nella sua modesta architettura quasi rurale, modificata ahimè già vari anni or sono nella sua composizione architettonica reale, con gravi ripercussioni sulla stabilità di quell’icona che si era impressa nella nostra mente, non poteva che presiedere stazioni di non più di due, tre binari.