Esistono luoghi a Roma che hanno un verso e il suo contrario come pelo e contropelo. Un verso e il suo contrario. Uno di questi è il Muro Torto. A tratti un Grand Canyon naturale della città, un’autostrada, un sentiero – per quanto largo – di campagna. Insomma se stessa e il suo antipode.
Senza stabilire quale sia il lato A e quale il B verso cui si dirige questa freccia, certo è inequivocabile che ci sia un alto e un basso.
Se cammini lassù in Villa Borghese ecco che il sotto ti sembrerà un’infernale venatura schizzata da gocce di macchine. Da sotto, nel chiuso del tuo abitacolo – difficile passarci se non in lamiera o a pelo di moto e motorini –, quegli sparuti passanti ti appariranno come nuvole di quadri impressionisti. E il fatto non è da attribuire alla miopia ma a un’ideologia stessa della visione che mette il mondo superiore e quello inferiore alla distanza di sicurezza del non riconoscimento.
A lato del gran curvone a gomito (piano con l’acceleratore, por favor!) ecco che inizia il prato più pomicioso della vita romana primaverile. Ma diciamo pure del bel tempo. Coppiette si dispongono in un’immaginaria scacchiera a incroci di braccia e, talvolta, di gambe. Ma è proprio in quel sopra/sotto che si giocano i termini della doppia faccia di questo parco fascinoso.
Il Muro Torto, opera della Roma repubblicana, deve la sua denominazione all’inclinazione dei muri che ne disegnano il percorso. Costruiti in opera reticolata erano noti in epoca antica per la loro scarsa tenuta. L’area non godeva di particolare credito e si racconta che vi si seppellissero le prostitute e che identico destino avessero subito qui le ossa di Nerone.
Tornando al doppio verso di questa zona vi sarà accaduto, di certo, di partecipare a entrambe le sfere di questa visione. Quella alta e camminante e quella bassa e motorizzata. Pensateci: non è forse radicalmente diverso partecipare a una sola di esse? O a entrambe cercando punti di contatto? Non è forse vero che “da dove guardiamo cambia il senso di ciò che vediamo”?
Villa Borghese è protagonista del bel romanzo di Giorgio Manacorda “Il corridoio di legno” (Voland). Teatro di uno stupro e di una fuga e di scene di passaggio tra il fulcro di Borghetto Flaminio e il resto della città. Dice, a un certo punto, uno dei suoi protagonisti: “Io sono cresciuto a Villa Borghese, conosco i suoi silenzi, il lontano gridare degli animali dello zoo, gli alberi, i prati, le colline, le statue e i nascondigli tra il Parco dei Daini e il Pincio, tra il Galoppatoio e piazzale Flaminio, tra Valle Giulia, piazza di Siena e il Giardino del Lago”. Villa Borghese, raccontata nei luoghi della sua multiforme bellezza, finisce spesso per essere amputata, decurtata di questa inconsueta autostrada al suo interno. Una via che è in parte parallela e in parte distinta – inferiore o superiore. È forse proprio in questa radicalità della differenza che si gioca l’esclusione per minorità del Muro Torto. Eppure, anche nella totalizzante osservazione della bellezza tutta naturale o artistica della Villa non dovremmo dimenticare la peculiare grazia automobilistica di questa via romana di attraversamento.