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Il pornoromanismo e la divinità

Il pornoromanismo e la divinità: una riflessione a partire dal libro di Loredana Lipperini “Roma dal bordo” (Bottega Errante) e un ricordo di Fabio Zanello.





Dovrebbe essere la recensione del libro “Roma dal bordo” (bottega errante edizioni) di Loredana Lipperini, appassionata e apprezzata giornalista e animatrice culturale e scrittrice, e lo sarà. Ma in parte voglio parlare di un mio personale disturbo, che mi risulti ancora non intercettato dal DSM né stigmatizzato dai moralisti, e scrivere un obituary per un amico.

Lo ammetto, sono affetto da pornoromanismo. Uno strano voyeurismo che mi fa desiderare con compulsività di leggere cose romane o, meglio, romaniste (ovvero di cultura genericamente romana, squisitamente narrativa per lo più ma anche archivistiva e memoriale).

Non so se è una di quelle pervicaci tradizioni stile La Strenna dei Romanisti – peraltro una vitale abitudine editoriale antica di parecchie generazioni. Per me è e rimane piuttosto una vera e propria attrazione malata che mi autodiagnostico per il racconto narrativo della città in cui vivo.

Un qualcosa di morboso e ripetitivo che pur avendo sviluppi talvolta simili nella forma oltre che nell’orizzonte è sempre attrattivo.

Un male non oscuro ma luminoso che porta un’allegria che aiuta anche a non pensare, avendone peraltro scritto in un libro “Perdersi a Roma” (e poi con una serie di committenze a seguire), ai “l’ho già scritto io un libro così”, “be ho già letto un altro di libro così”, “ma c’era bisogno di un nuovo libro su Roma?”, “se l’avessi scritto io…”.

Essendoci passato prima e avendo peraltro raccolto a suo tempo disistima (ma pure stima e fortuna) social e financo stampata (uno persino una volta nell’introduzione di una sua interessante rassegna editoriale di cose romane si era premurato di classificarsi exante in dissenso dai libri allora in voga pur senza citarli o citarne gli autori) mi sento di dire che sì ce n’è bisogno ed è persino bello leggere qualcosa di nuovo su Roma. Qualcosa che non hai scritto tu di un argomento che ti interessa.

So che a chi soffre di disturbi del narcisimo (qui qualcosa sul DSM, invece, si trova) può apparire incognito e abissale ma è così e che importa se tu lo avresti fatto meglio o di più o lo hai già fatto (o pensi di averlo già fatto).

Tanto noi, tutti noi, siamo solo dei mesti cerimonieri di un culto che ci schiaccia, ci macina e ci digerisce felicemente da millenni. Al limite possiamo essere noi dei semplici sagrestiani di questa Chiesa (in senso lato o meglio etimologico in questo caso: “der. di ἐκκαλέω «chiamare», significa «adunanza, assemblea»” così Treccani) Romana, della sua divinità.

“Roma dal bordo” ha il merito di far fare un salto indietro in un’epoca in cui la città in cui viviamo era un’insieme di possibilità a quella che è stata e forse sarà un insieme, contemporaneamente, di impossibilità. Roma è anche questo culto da officiare con sano equilibrio di eros e thanatos.

Spesso contemporaneo. Baobab Experience – il valoroso e unico progetto spontaneo di accoglienza alla Stazione Tiburtina – per fare un esempio è possibilità ma diventa anche impossibilità.

Prende le mosse dal Quartiere Africano – che io ho sempre chiamato Sedia del Diavolo – il libro di Lipperini e spazia per i palazzi di questo mix piccolo borghese (e anziano?) – e ripercorre strade che ho percorso (evviva!).

C’è una Roma di ragazze che si stanno formando tra le prime sigarette all’ombra del bersagliere di Porta Pia che fa venire in mente fatti brutti (antichi come il Circeo e poi più recenti e fumosi come quelli delle leggendariamente tristi scomparse Mirella Gregori e Emanuela Orlandi di cui più recentemente nella serie “Vatican Girl” una ricostruzione che trasuda quella romanità).

E poi dopo un po’ il Centro di Nicolini e del Partito Radicale, quello del vecchio cinema nello slargo alla fine di via Nazionale, il Centro delle feste in cui sei giudicato per il tuo dress code ma poi subito dimenticato (Roma ha questo di sano: metabolizza tutto, anche la moda), la periferia amata e scelta.

Lipperini racconta della sua Roma e la segmenta. Il Pigneto, alla cui gentrificazione troppo radical sembra preferire i Monti Tiburtini tutti pizze al taglio e tubi di scappamento, slot machine e fuochi d’artificio ad annunciare l’arrivo della droga.

Anche un mio amico – che ci ha lasciato da agosto – aveva questa pervicace spinta alla periferia. Con lui avevo imparato – ma poi lui l’aveva superata, evidentemente – che si può essere periferici nella centralità. Che è una risposta di coerenza interna oltre che un modo di partecipare al Grande Mistero di Roma.

Ricordo una sua casa prima dell’ultima a Tor Pignattara, per esempio, a viale Regina Margherita con una specie di corte interna all’appartamento e da lì un accesso al bagno esterno da cui riemergeva in tutte le stagioni con un accappatoio celeste incurante del freddo.

Era sempre vestito troppo leggero in inverno e troppo pesante d’estate – ma forse questo era un esempio ulteriore della sua contarietà alla norma stabilita.

Fabio Zanello, prima di lasciarci aveva compiuto un suo tributo a Roma (“‘Na botta infame”, Ortica edizioni) che è forse la cosa più sentita e schietta della sua opera erudita e antologizzante sulle religioni (il tanathos lo chiamava a molte riflessioni) che anch’essa in fondo condivideva quella chiamata a una sintesi con l’esperienza presente come se il cammino spirituale potesse non essere una cosa esterna per quanto poi Fabio tangenzialmente sfiorasse tutto (il Mistero e una tipografia al bordo del Raccordo). Come se volesse fuggire a una domanda diretta “ma sei buddista?” o “ma quindi sei sufi?” Cercando in definitiva una sintesi o un punto in cui tutto si tiene: un framemnto di saggezza e un’inezia. Una sala hobby in una villa dell’Olgiata o un seminterrato di venti metri di Torpigna.

Quella romanità – mixata al senso delle generazioni che si succedono – mi è risuonato anche nel libro “Roma dal bordo”. Anche Fabio si muoveva lungo un bordo tra illuminazione e baratro. Quella Roma di “Ode romana” che inizia come un’invocazione dalle periferie.

Lode a Dio più grande di Torpignattara
[e il Casilino,
del Tiburtino e di tutta Tor Bella,
lode a Dio più grande di Roma, del
[Raccordo e di me,
lode a Dio più grande della pioggia
[che cade sul cruscotto
e dei tergicristalli che la spazzeranno via,
lode a un Dio senza un nome definitivo
[o una immagine azzeccata,
un Dio a cui vorrei bene, se mi volesse
[bene…

Parte di questo lavoro può anche essere goduto attraverso la voce di Fabio stesso in una trasmissione in due puntate di Radio Rai.

Ma ora torno alla Roma del libro di Lipperini che finisce per essere piacevolmente un altro bel libro sulla città. Un altro di cui c’era bisogno, sì.

Come il gioco della torre o dell’isola che viene sempre giocato al contrario. Io, se rimanessi su un’isola ci vorrei il mondo dentro e quando capiterà per qualcuno, mi auguro il più tardi possibile, sarà evidente quando la numerosità può essere una risposta alla solitudine anche se non si tratta di una numerosità esterna.

La scrittrice Loredana Lipperini conferma nel suo libro uno strano assioma di Fabio “a volte vorrei essere quel quartiere / che rivedi da dentro per sentirlo / [estraneo”. L’idea effettivamente di essere (o voler essere) insieme parte di un tutto ma solo in parte e per parti.

Avete presente il ritornello delle presentazioni? “Ma sei di Roma Roma?” Quante volte vi sarà stato chiesto in viaggio da qualcuno stupito dalla vostra presenza lì. Non mi sembra si possa dire che esista un omologo “Ma sei di Milano Milano?” Ma a chi gliene frega tanto se sei di Milano o di Sesto San Giovanni. Non è nemmeno poi per quello che te lo chiedono. Non c’è precisione in quella richiesta. Non è una domanda da google maps. Dietro, più profondamente, c’è la Religione.

Quella domanda nasconde un quesito di fede. La gente intanto è costernata dalla tua presenza come se un vero romano non potesse uscire dalla città, come se fossimo Lari o Penati inchiodati alla nostra divinità.

Ti chiede se esisti davvero e se per mezzo tuo si può dimostrare così l’esistenza di quel confuso concetto ideale che è per lui Roma. Quel che ti si chiede è se sei Roma.

Un po’ come l’amore il sesso e la pornografia: cose che stanno tutte insieme sullo stesso confuso e riechieggiante piano cartesiano.

Aspirazioni più o meno fedeli al Culto di Roma, più o meno al centro o al bordo di esso come le altre all’Amore con la maiuscola. Roma, anche Roma, è (come va di moda dire, piaccia o non piaccia) quella roba lì.

Di roberto carvelli

Founder e direttore di "Perdersi a Roma" collabora con Il Messaggero, il Venerdì e Nuova Ecologia. Ha pubblicato libri di prose, poesie e narrativa di viaggio tra cui "Letti" (Voland), "AmoRomaPerché" (Electa-Mondadori), "La gioia del vagare senza meta" (Ediciclo), "Fùcino" (Il Sirente), "Il mondo nuovo" (Mimesis), "Andare per Saline" (Il Mulino) e "I segni sull'acqua" (D editore).