Oggi fa Trenta. Trenta gli anni dalla morte di Italo Calvino. Ci siamo permessi di ricordarcene e ricordarlo. Buona lettura.
“C’è una cosa straordinaria da vedere a Roma in questa fine d’autunno ed è il cielo gremito d’uccelli”.
“Di notte dormono sugli alberi della città, e chi parcheggia la macchina sul Lungotevere, al mattino è obbligato a lavarla da cima a fondo”.
La Roma più vera di Italo Calvino (Santiago de Las Vegas de La Habana, 15 ottobre 1923 – Siena, 19 settembre 1985) è quella di “Palomar” che abbiamo letto ora. Anche se Roma non ha nome. Anche se la città non si sa quale sia. Ma sembra di riconoscere quella del suo appartamento romano, quello che riecheggia nel racconto che ne fa Francesca Serra: “Quanto sia disperante per noi questa particolare forma d’arte, quanto lontana dalla nostra cultura e dalla nostra mente, ci vuole poco a capirlo. Basta andare una volta nel suo appartamento in Campo Marzio, a due passi da Montecitorio a Roma. Salire le scale, entrare nella casa che lei e il marito comprarono all’inizio degli anni Ottanta, sedersi vicino a questa donna argentina nata a Buenos Aires nel 1925 e cominciare ad ascoltarla. Poi raccogliere le proprie cose, quando è l’ora del congedo, uscendo beati nel crepuscolo romano. Beati e disperati”. Così scrive Francesca Serra raccontando l’incontro con la moglie di Calvino Chichita nella casa romana. Quella che fu anche dell’autore. Il brano fa parte di un dossier che la rivista web “doppiozero” sta pubblicando in occasione del trentennale della morte dell’autore. Si compone di una serie di saggi sull’attualità e inattualità del lavoro di questo polimorfo artista. Con sorprese e attesi ridimensionamenti.
“Dal proprio terrazzo, che dà sulla città, Palomar la osserva dall’alto, immedesimandosi in un volatile e interpretando così le cose dal suo punto di vista. ‘Così ragionano gli uccelli, o almeno così ragiona, immaginandosi uccello, il signor Palomar.-Solo dopo aver conosciuto la superficie delle cose, conclude, ci si può spingere a cercare quel che c’é sotto. Ma la superficie delle cose è inesauribile’.-”
La Serra è nella abitazione romana (che precedette nella storia abitativa dello scrittore il trasferimento parigino), quella dove sono ancora conservati i suoi volumi. Ancora nell’ordine che gli aveva voluto dare lo scrittore – come racconta Laura Di Nicola in “I libri di Italo Calvino” (“Bollettino di italianistica”, Carocci – 1/2013, gennaio-giugno), sottolineando la rarità inconsueta della compostezza. Non comune eredità dei lasciti di autori spesso compromessi da spostamenti.
Calvino in quella casa è raccontato silenzioso e poco incline al viaggio, alla socialità, al parlare in pubblico. Lì, proprio al fianco di Montecitorio guarda Roma dai tetti, fiero delle verande tra cui si muove. La sua Roma sembra iniziare e finire qui, o così sembrerebbe dire la vulgata di un Calvino ritroso e timido ma c’è anche via Biancamano, la Einaudi romana verso cui muove.
Eppure è forse proprio nella scomposizione di “Palomar” che va cercata l’ispirazione alla sua visione romana. Quella dalla casa e dai terrazzi di Campo Marzio, come abbiamo scritto. A partire dalle osservazioni di questo personaggio-simbolo di ogni personaggio nella sezione delle sezioni (“Palomar sul terrazzo” in “Palomar in città”) in cui un Calvino vorticato tra mare dell’oggettività e poesia narrativa campionatoria alla Ponge, riparato dalla semplicità zen cerca l’assoluto in un palmo di mano. O nella pancia di un geco: “L’attenzione di Palomar e della moglie viene catturata da un piccolo geco, intento a divorare alcune delle sue prede. Egli, fissando la pancia quasi trasparente dell’animale, che è appoggiato al vetro della finestra, cerca di cogliere il percorso che gli insetti-vittime compiono al suo interno, riflettendo così sul ciclo della vita. ‘Forse in questo momento un dio degli inferi situato al centro della terra col suo occhio che trapassa il granito sta guardandoci dal basso, seguendo il ciclo del vivere e del morire, le vittime sbranate che si disfano nei ventri dei divoratori, finché a loro volta un altro ventre non li inghiotte’.”
Le stagioni si avvicendano e arriva “L’invasione degli storni” quando “Sempre dal terrazzo Palomar contempla il cielo d’autunno gremito d’uccelli che stanno emigrando e come ogni anno condivide quest’esperienza visiva con i propri amici. Egli si entusiasma nel commentare gli atteggiamenti che gli storni assumono durante il volo”.
Una coreografia celeste che non può sfuggire a un romano anche meno attento osservatore:
“una folla aerea che sembra sempre stia per diradarsi e disperdersi, come granelli di una polverina in sospensione in un liquido, e invece continuamente si addensa come se da un condotto invisibile continuasse il gettito di particelle vorticanti, senza però mai arrivare a saturare la soluzione”.
La domanda di oggi è trentennale. Ed è se Calvino sia ancora “soluto” o “solubile”. Se, al di là dei banchi di scuola, possa dirsi finita o sfinita la sua ricerca. Noi oggi lo ricordiamo. Guardando in alto. Se non dall’alto dei cieli romani.
La foto cover viene da: www.internetculturale.it