Karma comedians. Chi sono i nuovi comici. Da dove vengono (molti, come leggerete, dalla Locanda Atlantide a San Lorenzo e dallo Stand Up Comedy), come sono cambiati nelle generazioni delle risate e, soprattutto, dove ci porta la loro comicità? Anticipiamo un capitolo da “Indaffarati” il nuovo libro di Filippo La Porta in uscita per Bompiani (NdR).
PENSIERO CRITICO E NUOVI FOOL
di Filippo La Porta
Chi sono i portavoce e modelli delle
nuove generazioni, orfane di maestri riconosciuti?
Probabilmente gli stand up comedians,
i giovanissimi e iconoclasti
comici televisivi, ultima versione del fool
shakespeariano che dice la verità. E proprio
loro sono lo specchio di contraddizioni e
caratteristiche del loro pubblico.
Su YouTube furoreggiano gli americani,
su tutti Louis C.K., di origine ebreo-irlandese –
un po’ sovrappeso, rossiccio
di capelli, cattivissimo – e il suo maestro
(scomparso) George Carlin – irriverente
e con piglio profetico (stupendo il suo
monologo sulla nostra pretesa di salvare
il pianeta).
Nell’ultimo romanzo, Applausi
a scena vuota, David Grossman dedica
loro un monumento perché comedian lo
è il protagonista. In Italia li ritroviamo in
Stand Up Comedy sul canale Sky Comedy
Central – a sua volta ispirato all’omonimo
canale americano, quello di Jon Stewart e
dei inti notiziari – dove si raccoglie una
manciata di comici poco più che ventenni,
capeggiati da Saverio Raimondo,
tutti molto scorretti, splatter, blasfemi,
esagerati, pornograici, volutamente triviali.
Cosa li differenzia dai cabarettisti
tradizionali? Un abisso. Il fenomeno è
nato negli States, e là è debitore sia verso
la tradizione yiddish più grafiante (da
Lenny Bruce a Woody Allen) e sia verso
le figure dei predicatori evangelici televisivi.
Anche se da noi un modello che circola,
più o meno sotterraneamente, sono
i superbi monologhi di Walter Chiari a
Studio Uno degli anni sessanta, che però
si distinguevano per intelligenza di osservazione
ed eleganza lessicale.
I nuovi comedians rifiutano polemicamente i modelli recenti,
i Grillo e Benigni, giudicati
più o meno “corrotti”. Nessuna vera parentela
poi con cabarettisti più tradizionali – e convenzionali –
come Brignano, Battista ecc. e con la generazione di Zelig
(rispetto alla quale a Stand Up Comedy
c’è una prevalenza romana, perché il
gruppo più consistente viene dalle serate
al locale capitolino Locanda Atlantide).
Tutt’al più Raimondo potrebbe evocare
a tratti Daniele Luttazzi. Ma soprattutto:
in loro l’intrattenimento non nasconde
una intenzione “eversiva”, la comicità ha
la pretesa di dire verità scomode e acuminate,
la battuta e lo sketch si fanno veicolo
di visioni del mondo alternative.
Chi è il bersaglio polemico? Non la destra né
la sinistra in particolare (la satira compiacente
del Bagaglino è lontana anni-luce),
ma direi: il luogo comune, lo stereotipo
conformista alla Bouvard e Pécuchet, il
sentito dire, la retorica animalista e di
Tripadvisor, perfino proverbi e saggezza
popolare (monologo di Enzo Paci) e subito
dopo l’ipocrisia, l’incoerenza sfrontata,
la ossessione di edulcorare e mitigare,
e poi gli inganni di Facebook (Filippo
Giardina: “Su Fb tutti parlano e dunque
nessuno parla: il potere ha cancellato
la libertà di espressione saturandola”),
gli equivoci sulla droga (Francesco
De Carlo: “Per non vedere la differenza
tra droghe leggere e droghe pesanti devi
essere strafatto!”), il mito della creatività
(Giorgio Montanini: “L’arte in Italia è
reazionaria perché è fatta da dopolavoristi
frustrati che magari sono bravi nella
loro professione ma devono dimostrare
quanto sono creativi”), l’imbroglio democratico
(Raimondo: “Non mi sento
rappresentato dall’elettorato!”), dunque
il perbenismo, i buoni sentimenti e i valori
nobili che coprono interessi anche
sordidi.
E certamente qui tornano alcuni
schieramenti politici: per esempio il radical chic
sinistrorso, percepito come ideologia
pseudosofisticata che nasconde una
voglia azzannante di potere (monologo
durissimo di Velia Lalli, una delle poche
donne comedian, accanto ad Annalisa Aglioti).
A volte la critica si morde la
coda, perché evidentemente l’attacco al
cliché diventa subito nuovo cliché, in una
ricerca estenuata dell’estremo e dell’oltre,
di chi la spara più feroce, di chi scandalizza di più.
E proprio su questo terreno – l’épater les bourgeois
delle avanguardie – i nuovi comedians rischiano molto,
dal momento che ormai il potere non
reprime, non vieta più nulla e anzi invita
a esagerare nei consumi, a trasgredire, a
profanare. Ho già citato Foster Wallace:
niente è più trasgressivo e autoironico di
uno spot pubblicitario (alcuni dei comedians
potrebbero essere usati da qualche
azienda molto spregiudicata come testi-
monial). Prendiamo il turpiloquio spinto,
denominatore comune dei comedians.
Quando avevo vent’anni dire le parolacce
era una cosa “sconveniente” e trasgressiva,
proprio perché la classe dominante
era untuosamente bigotta e perbenista,
ma nel momento i cui anche i parlamentari
esibiscono volentieri trivialità e vernacolo
allora la rivolta deve reinventare il
proprio linguaggio. Non intendo fare la
morale ai comedians. E se da un lato accettano
il tacito imperativo che qualsiasi
discorso pubblico debba trasformarsi oggi
in intrattenimento e vaudeville, dall’altro
nei loro monologhi affiorano qua e
là alcune perle di pensiero critico.
Ma la satira culturale deve essere caratterizzata
sempre da una qualità dello stile e dello
sguardo, unica vera “differenza” rispetto
alla banalità aggressiva di tutto quello
che ci circonda. E dunque da ragionamento
articolato, pensiero meditato, atteggiamento
analitico, senso della complessità,
capacità di produrre argomenti
(tutte cose penalizzate dalla cultura di
massa e dell’entertainment), senza accontentarsi
delle battute a effetto. Il cinismo,
così sbandierato, se non nasce da pietas e
da una capacità di incanto, somiglia troppo
al cinismo indiscriminato del potere.