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La misura del padre

La misura del padre, nell’ultimo libro di Michele Mari “Leggenda privata” (Einaudi).

Passiamo la vita a disprezzare negli altri quello che non amiamo in noi stessi. E – “cambiooo!” – ad ammirare negli altri quello che ci fa vergognare di pensare nel segreto della nostra intimità. Dura, eh? Quando poi arriva il redde rationem dell’età e, dell’età che avanza, eccoci a memorizzare (scusate il neologismo) il nostro vissuto. A voce, come dei contastorie.

Fermando gli altri. Talvolta risultando noiosi persino a noi stessi. Ma poi tutto dipende da come lo raccontiamo. Con quale maestria nel creare uditorio. Con quanta ironia e con quale recondito scopo. Già, lo scopo! Vogliamo nutrire un’ultima parte residuale e in exitu del nostro ego?

Liberi: ognuno fa con la memoria e con il proprio ego quel che crede. Per diverse ragioni, non ultima quest’opera di bilancio, amo in modo particolare il genere memoir. In tempi recenti mi sono imbattuto in un editoriale di Eugenio Scalfari e in un libro di Michele Mari.

L’editoriale (in realtà, la sua rubrica “Vetro soffiato” su “l’Espresso”) s’intitola “Breve storia di un padre” – vi consiglio di leggerlo – riprendeva alcuni episodi della vita del genitore che nel 1968 dà alle stampe un libro a proprie spese. Il titolo, mai tanto profetico e utile allo scopo del racconto di oggi del fondatore de la Repubblica, era “I morti vivono”. Ed è la stessa cosa che sembra realizzarsi nell’ultimo libro di Mari.

Ecco, è raro che accada ma sì, da Michele Mari c’è tanto da imparare. Credo anche dalle sue liste della spesa. In “Leggenda privata” (Einaudi) lo scrittore milanese compone un memoir che oggettivizza in un’atmosfera (ecco l’originalità) surreale il romanzo che, forse (forse), chiude la sua carriera di scrittore.

Come se la scrittura fosse una carriera, un corso lineare. E non piuttosto, come nel caso di Mari, una ricerca che in questo autore ha prodotto frutti dissimili ma gustosi e non plastificati sia in termini di presentazione che di costituzione. La vita di Mari ha una sua complessità famigliare e non sembra casuale che questa stessa ricchezza abbia prodotto poi esiti multiformi ma dissimili dal vettore patrilineare.

D’altronde, come scrive MM: “Riconoscersi-progettarsi nel figlio è cosa buona e giusta (…) altra cosa è pretendere un figlio a propria somiglianza ed imago”. E invece i due hanno facce uguali (in certi momenti si rappresentano come un “doppio” anche se in una frequenza diversa) e persino una prossemica simile anche se paralleli (“mondi separati, tanto più separati quanto più ravvicinata è la distanza”) come evidente dalle foto che hanno un grande peso nel testo. Sin dalla copertina che però centra il vero target: la madre, concreto eroe della storia, a guidare il giovane nell’uscita dalle strettoie della vita.

Il libro, in un’ekfrasis, alterna già testi a immagini private – tutte rigorosamente poco sorridenti – ma gravide di tensione anche morale e forse dotate di un peso sovrastorico. Hanno in più la fortuna di sembrare scattate e quindi pensate per la pubblicazione. D’altro canto Mari scrittore è figlio di Mari Enzo, grande designer degli anni d’oro del gusto italiano e della disegnatrice Iela Mari. Ed è lei, la madre, dicevamo la vera protagonista di questo caos famigliare, che si snoda nelle pagine mai solo confidenziali del libro.

La donna, che ha avuto importanti legami con Buzzati e Bonatti, Jannacci e Gaber – per rimanere agli scrittori non manca un Eugenio Montale a fare capolino, sempre per via parentale (del fratello maggiore del Nobel, Salvatore) in una foto d’insieme rivierasca -, ha avuto la potente funzione di proteggere il giovane Michele dall’ingombro del padre, riuscendo, con forza non rara nelle madri, a non crearne un altro di ingombro, a sostituirlo, riuscendo così a ridimensionarne financo il potere negativo.

Il padre è una misura importante (lo sapevano i Mann padre e figlio) per confrontarsi. Anche a distanza di anni, come non sfugge a Scalfari. Il tema è sempre che cosa ci si debba fare con questa misura – ingombrante o meno – e quanto sia necessario lasciargli fare con noi meno di quel che è necessario, se serve. Ma il giusto: in ogni caso il giusto. E poi via, per quella che è la nostra strada. Perché sì, passiamo la vita a fare di noi altro da quello che avremmo voluto. Almeno con la fantasia. Almeno nel desiderio. Passiamo la vita a fare in tutti i casi altro. E non dirò che è subito sera.




Di roberto carvelli

Founder e direttore di "Perdersi a Roma" collabora con Il Messaggero, il Venerdì e Nuova Ecologia. Ha pubblicato libri di prose, poesie e narrativa di viaggio tra cui "Letti" (Voland), "AmoRomaPerché" (Electa-Mondadori), "La gioia del vagare senza meta" (Ediciclo), "Fùcino" (Il Sirente), "Il mondo nuovo" (Mimesis), "Andare per Saline" (Il Mulino) e "I segni sull'acqua" (D editore).