Ci sono persone che attraversano i secoli. Per il lungo corso dell’età e la forza della loro produzione – ora parliamo di artisti – creano una cesura tra i tempi, tra le culture. Il caso di Manlio Cancogni si inscrive perfettamente in questo genere di passaggi epocali.
È indubbio che pesa la sua vita quasi secolare e la sua vasta produzione che ha trovato recentemente nell’editore Elliot la giusta vetrina-tributo. Una curata attenzione alla sua sterminata (e premiata) bibliografia. Si può dire che l’inizio va ricercato al principio degli anni 40. Dopo diversi anni arrivano i premi. Nel 1966 il Bagutta e nel 1973 lo Strega con “Allegri, gioventù”. Per qualcuno il suo capolavoro è il romanzo “Azorin e Mirò” scritto sotto i bombardamenti di Firenze. Nella biografia tanti episodi di vita vissuta: la guerra da soldato disarmato, la resistenza in bicicletta, il viaggio negli States.
A Simone Caltabellota in “Tutto mi è piaciuto” dice “Ero esterofilo. Ero per la vita moderna, per la modernità. Infatti dell’Italia quello che salvavo era solo Milano. Di Roma amavo alcuni quartieri, come il Tritone, il Corso, non la parte storica. E una certa periferia, i viali di Prati, Monte Mario. Del resto il sublimine è un manifesto antistoricista! La mia filosofia del mondo si è basata sulla ferrovia, la linea ferroviaria Termini-Viareggio. Era la liberazione da Roma, e mi portava qui, l’unico luogo del mondo da dove, quando ci sono, non voglio andare via. Dovunque sono stato, ho sempre desiderato andar via, contando i giorni che mi separavano dalla partenza. Dal ritorno alla Versilia, e dalla nuova partenza verso Roma o l’America. Quei viaggi in treno! Dopo Grosseto era chiaro che non c’era scampo. Poi Civitavecchia, Termini. Ora no, in questo davvero ho raggiunto la pace dell’anima”.
A questa confessione “tranviaria” (che si miscela alla passione dichiarata sempre nel libro-intervista per il camminare) era seguito il ricordo della sua amata Versilia, di Sarzana, di Fiumetto (dove l’intervista ha luogo tra febbraio e marzo 2013) in cui ha vissuto con la mitica Rori oltre settant’anni d’amore. Poi gli Stati Uniti in cui va a insegnare e, a quel punto, a Caltabellota, confessa qualcosa sulla nostalgia: “Be’, se si toglie il fascismo (cosa certo un po’ difficile), comunque tolta la faccia di Mussolini, un po’ sì. Tieni conto che io non sono mai stato tagliato per fare l’antifascista militante, in clandestinità. Certo, a Roma, nel maggio del ’40, durante una lezione in classe al Virgilio, dissi chiaramente che non si poteva fare la guerra accanto a un assassino sanguinario come Hitler: insomma non facevo segreto delle mie posizioni antifasciste, e per questo persi il posto a scuola, ma quanto alla militanza vera e propria no, non era per me.
Del resto le possibilità erano di essere del Partito Comunista o di Giustizia e Libertà, e io non avevo nessuna intenzione di arruolarmi in un partito; sì, ci ho anche provato brevemente, ma mi dava sempre fastidio, questa è la verità, l’ipotesi, che è stata molto concreta nel ’42, di entrare nel Partito Comunista; c’era al fondo una repulsione, una repulsione che, nota bene, non era perché pensavo che il comunismo sarebbe fallito, pensavo invece purtroppo che sarebbe riuscito: era questo che mi sgomentava. Mi ripugnava l’idea di una possibile società perfetta: ma, dico, siamo matti? È un incubo! Comunque, finché il comunismo non c’era, mi dicevo, al limite avrei potuto anche fare il clandestino comunista, come i miei amici Alicata, Ingrao, Trombadori, la generazione che avrebbe dovuto sostituire quella dei Togliatti, Di Vittorio, Secchia eccetera. Di fatto io ero con loro, ma alla fine ho evitato quella militanza, per fortuna…”
La vita di Cancogni si innesta più e più volte con Roma. Biograficamente la sua formazione intellettuale avviene nella Capitale tra i licei Tasso, Giulio Cesare e Virgilio (in cui insegna dopo la doppia laurea in Legge e Filosofia a La Sapienza). Ma è soprattutto l’incontro con Carlo Cassola a determinare l’ingresso nel mondo letterario.
La città vi compare ad esempio in “Dov’era la verità”.
“Mosca era contento di trovarsi a Roma. Alloggiava in un albergo vicino all’ufficio, in una traversa del Corso, frequentato da turisti e stranieri. Gli avevano dato una cameretta al piano attico, da cui vedeva gli alberi della villa Medici e del Pincio e una grande distesa di terrazze e comignoli (…) A cena andavano sempre in qualcuna delle numerose trattorie che stanno fra la via del Babuino e il Corso. Mosca era diventato esigente. Prima di entrare giudicava il locale dai cibi esposti in vetrina, dalle facce dei camerieri e dall’odore che filtrava in strada.”.
Ma è in quel famoso reportage uscito sul settimanale “L’Espresso” dell’11 dicembre 1955 con il titolo “Quattrocento miliardi”, strillato in copertina con lapalissiana urgenza “Capitale corrotta=nazione infetta”, che il nome si lega inscindibile alla città. Se lo volete leggere per intero lo trovate qui.
Noi abbiamo voluto regalarvi una piccola antologia di anomalie sapendo di farvi cosa gradita (storicamente e astoricamente) e così vi salutiamo:
ATAC e ACQUA MARCIA
“Tutte le aziende autonome, come l’Atac, ad esempio, sono diventate passive. In compenso, quelle private, come la Pia Acqua Marcia, hanno continuato a realizzare utili enormi e le aree fabbricabili hanno avuto incrementi di valore di sessanta, settanta miliardi l’anno”.
EDILIZIA vs SVILUPPO INDUSTRIALE
“Se Roma non ha sviluppo industriale la colpa è di chi specula sulle aree; se ventottomila famiglie vivono nelle baracche della Tuscolana, della Prenestina o del Campo Parioli, la colpa è degli speculatori sulle aree; ma se trecentomila famiglie di professionisti, commercianti, impiegati, operai pagano affitti sproporzionati alle loro possibilità o vivono in case vecchie, sovraffollate, sprovviste di conforts moderni, la colpa è degli speculatori delle aree”.
VERSO DOVE SI VA
“I terreni dell’Immobiliare sono disposti intorno a Roma in maniera strategica. Ne ha per 470.000 metri sulla via Tuscolana, per 530.000 a Tor Carbone, per 90.000 sulla Prenestina, per 215.000 sulla Trionfale, per 50.000 sulla Salaria, per 1.336.000 sulla Nomentana, per 1800.000 sulla Casilina, ecc. ecc. In questo modo essa può decidere volta a volta in che direzione le conviene che la città avanzi”.
MAGGIORANZA
“A Roma non è avvenuto oltre che per il volere del partito di maggioranza, perché i principali gruppi speculatori della capitale desiderano la permanenza dell’attuale consiglio in Campidoglio”.