Da un racconto di Matilde Serao – “Un suicidio (Julian Sorel)” – tratto dalla raccolta “Gli amanti”: una passeggiata per Roma in cui il vagare segue i tormenti della mente.
Scendendo, per via Nazionale, Julian Sorel andava alla morte. Non trascinava più a stento le sue gambe stanche, ma non correva neppure; non si fermava più, a certe vetrine, ma gli occhi che fissava sui viandanti, avevano la stessa dolente espressione di chi non vede; non trasaliva più, quando squillava la cornetta del tram, ma il pallore del suo volto era diventato livido.
L’uomo agonizzante aveva ricevuto la estrema ferita: ma gli era anche stata indicata una via ed egli vi andava, senz’affrettarsi, ma fatalmente, alla luce azzurrina e glaciale di due occhi divini che lo conducevano, al suono funebre di una cristallina voce muliebre che lo accompagnava, alla carezza di due mani sottili sulle tempie e nei capelli, all’ultimo bacio dalle labbra parlanti, ultimo bacio e ultime parole, penetrate nel cervello, nell’anima, nel cuore, in tutto l’essere. Adesso, camminando,
Julian Sorel pensava soltanto in quale punto del gran Tevere egli si dovesse andare a buttare:
Gwendaline Harris non glielo aveva detto.
Non a Ripetta, poiché il ponte è troppo frequentato di giorno e vi sono le imbarcazioni dei canottieri e il suicidio vi fa fiasco quasi sempre: non all’Albero
Bello, perchè un posto prediletto alla morte e vi è una barca di salvataggio; non a Ripa, perché vi sono troppe tartane cariche di vino di Sicilia; dove, dunque? Si rammentò una sera di agosto, in cui, di passaggio per Roma con Gwendaline Harris, venendo da Vienna e andando a Sorrento, erano andati a Ponte Molle, borghesemente, come tutti coloro che sono costretti a restare in Roma nell’estate: e avevan passeggiato, su e giù, lungo il fiume, verso i vasti prati di Tor di Quinto, verso
la ombrosa via Angelica: Gwendaline era vestita di molle seta bianca, come sempre di bianco, e aveva un gran mantello leggiero di lana bianca: sì, sì, egli sarebbe morto a Ponte Molle, verso Tor di Quinto o per la riva di via Angelica, era ancora lei che gli suggeriva questa idea. Era a piazza Venezia, quando si decise.
E prese per il Corso, sulla diritta. Qualcuno lo salutò, egli non riconobbe
chi fosse e passò innanzi: varii lo fermarono, eran creditori di piccole, di grandi somme e la domanda variava, ora brutale, ora piagnolosa, ma insistente, ma implacabile, lo avean saputo ricco e gli avean fatto credito, e credevan che avesse denaro ancora, credean che si negasse per mala volontà. Tutta la traversata del Corso fu una lunga tortura, per lui fu il tormento immeritato, ingiusto, poichè, infine, egli andava a morire, di questo passo, fra un concerto di voci, di parole, di
frasi che gli dicevan, tutte, cercandogli i denari:
– Va, va a buttarti nel fiume: sarai più felice, morto.
Tanto che giunto verso piazza del Popolo, fu preso, nella mitezza sentimentale della sua debole natura, da un furore di morte. Andò contro un pesante omnibus di albergo che correva, per farsi arrotare: ma il cocchiere lo schivò bestemmiando, gridando. A quell’ora, in quella giornata umida e triste di marzo, fuori porta del Popolo non vi era quasi nessuno: e quella crescente solitudine lo calmò un poco, mentre si metteva per il fangoso marciapiede che per la via Flaminia, lungo i colli Parioli, porta a Ponte Molle.
Nessuno nel piccolo caffè dove si fermano i cocchieri da nolo e i carrettieri; nessuno, nelle piccole osterie che pullulano ogni cinque passi, sino alla metà di
via Flaminia; nessuno, pei campi deserti, tutto un deserto di mota, dove cresce a stento qualche alberetto nerastro.
Egli pensò, se avesse dovuto scriver qualche cosa prima di morire, una
spiegazione, un saluto: e un novello fiotto di disperazione lo soffocò, non aveva nessuno, nessuno cui scrivere, né un parente, né un amico, né una conoscenza, non lo avrebbero rimpianto e maledetto che i suoi creditori: aveva vissuto come un gaudente, solo per l’amore, pel lusso, pel piacere, e moriva così, per queste cose, portando nell’anima come ultimo addio le parole di Gwendaline Harris per cui aveva speso un milione e ottocentomila lire, le parole con cui gli diceva di uccidersi, perché sarebbe stato più felice, morto. Nessuno, nessuno, non la madre, non una
sorella, non una fidanzata, non un amico, niente, niente, non una lacrima umana, su lui: e l’estrema scena della sua vita nella gran solitudine, nel gran silenzio della campagna romana, in quel tristissimo giorno di marzo, camminando e affondando nel fango, era il degno compimento della sua esistenza.
Dal racconto “Un suicidio (Julian Sorel)” tratto dalla raccolta “Gli amanti. Pastelli” (Fratelli Treves Editori, 1894)